"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

martedì 21 ottobre 2014

Estratto da "Dominique": Mathis

All rights reserved.
(...) Mathis era riuscito a realizzare sia pure con gran fatica il desiderio di diventare archeologo e da poco aveva avuto un importante assegno di ricerca alla Sorbona.
Lo vidi arrivare affannato e di corsa come sempre.
“Ciao Dominique! Scusa il ritardo, ma sono cominciate le sessioni estive e il dipartimento è in delirio. Il professore è furibondo perché secondo lui il livello di preparazione dei ragazzi è bassissimo e sta bocciando davvero tanto. Il risultato è che ci stiamo trovando file di studenti disperati all’orario di ricevimento.”
“Ha ragione?” chiesi.
“Bah! Il livello di preparazione negli anni anziché aumentare è certamente diminuito. Non so se è colpa nostra; se, distratti da mille impegni, non riusciamo a dar loro sufficiente supporto o se non riusciamo a trasmettere la passione per queste materie. In generale, però, vedo che raramente c’è reale voglia di approfondire, di acquisire gli strumenti necessari per diventare un vero archeologo. Vedo superficialità e soprattutto poca voglia di sacrificarsi per conseguire gli obiettivi. Eppure quei sacrifici dovrebbero essere sorretti dalla passione per l’archeologia. Diversamente non avrebbe neanche senso iscriversi ad una facoltà come questa che di sacrifici ne richiede tanti sotto ogni aspetto. Tu l’hai visto, Dominique, quanto mi è costato e quanto mi costa tutt’ora fare questo lavoro, ma ciononostante sono sempre andato avanti per la mia strada facendo del mio meglio”.
Lo guardavo mentre parlava, i capelli scompigliati e l’aria stanca e accaldata, e pensavo al senso delle sue parole.
Sorrisi immaginandomelo sotto il sole cocente dell’Egitto durante gli anni della gavetta in cui, insieme ad altri studenti, armato di vanghe e scarponi, veniva impiegato per portare avanti nuovi scavi. Quello stesso ragazzo che poteva sopportare i trek e le scalate nel gelo e nella neve, non poteva tollerare minimamente il caldo, come testimoniava la sua aria stravolta in quella calda giornata di luglio. Ma sapevo che non erano, certamente, solo quelli i sacrifici cui faceva riferimento.
Per riuscire a guadagnarsi un posto all’Università, in un ambiente chiuso come quello degli archeologi, Mathis aveva dovuto fare immensi sacrifici; aveva dovuto studiare e lavorare duro più di chiunque altro; aveva dovuto tollerare soprusi e angherie di ogni genere. Il professore, con cui aveva collaborato sin dall’inizio e che ne apprezzava moltissimo le qualità intellettuali e la passione, non era riuscito a proteggerlo da ingiustizie che ne avevano rallentato la carriera; soltanto con il mutare di alcuni equilibri alla Sorbona, i suoi sforzi erano stati finalmente premiati consentendogli di ottenere i meritati riconoscimenti.
Ma sapevo anche che, in parte, quei riconoscimenti non avrebbero potuto ripagare Mathis di qualcosa che nessuno gli avrebbe più restituito: durante il dottorato aveva conosciuto Ariel, una ragazza parigina che studiava arte contemporanea; insieme erano diventati una coppia unita e affiatata, a dispetto dei lunghi periodi che erano costretti a trascorrere  lontani ogni volta che Mathis veniva inviato dall’Università in nuovi luoghi di scavo.
Un anno, però, fu chiamato a partecipare a dei lavori in Africa per il recupero di reperti probabilmente di epoca preistorica, rinvenuti da un esploratore del National Geographic in un'area giudicata sino a quel momento inaccessibile.
Per Mathis era l'occasione della vita; avrebbe potuto sovrintendere uno scavo la cui importanza era considerata eccezionale, anche in considerazione del luogo del ritrovamento che avrebbe potuto aggiungere nuovi tasselli alla ricostruzione delle migrazioni preistoriche attraverso l’attuale continente africano.
L’apertura del nuovo cantiere era stata particolarmente complessa per l’inaccessibilità del posto e per la difficoltà delle comunicazioni.
Per tre mesi Mathis era rimasto quasi del tutto isolato dal mondo; riusciva a parlare con Ariel soltanto una volta a settimana e non senza difficoltà, dopo alcune ore di cammino per raggiungere il villaggio più vicino.  All'improvviso, però, Mathis aveva cominciato a sentirla strana, il tono della sua voce tradiva un’agitazione e una tristezza che non le appartenevano, ma ad ogni domanda Ariel era evasiva. Mathis era preoccupato, non sapeva cosa pensare, temeva che la distanza la stesse allontanando; non sapeva che qualcosa di più terribile stava accadendo e che la situazione sarebbe improvvisamente precipitata.
Un giorno, arrivato al villaggio per la comunicazione settimanale, trovò un messaggio dei genitori di Ariel in cui gli chiedevano di contattarli urgentemente perché la ragazza stava male e lui doveva rientrare il prima possibile. Mathis fu preso dal panico; era passata quasi una settimana da quel messaggio. Aveva il cuore impazzito e con le mani tremanti compose il numero scritto sul biglietto sbagliando più volte. Infine la voce della sorella di Ariel gli rispose dall’altro capo del telefono: “Cloe, sono Mathis, ho letto il messaggio, cosa sta succedendo?”.
Cloe rispose con un filo di voce: “Mathis…Ariel…è morta…”.
Mathis rimase come paralizzato, la voce si era strozzata in gola.
Cloe piangeva “Mathis è successo all’improvviso. Dopo un paio di settimane dalla tua partenza è svenuta, i colleghi l’hanno portata in ospedale e dagli accertamenti è emerso che aveva una gravissima forma di neoplasia del sangue. Ma non pensavamo che sarebbe successo tutto così velocemente. Anche Ariel non lo pensava, per questo non ti ha detto niente. Non voleva che ti preoccupassi, non voleva che tornassi per lei. Continuava a ripetere che per te era un’occasione troppo importante e che se fossi tornato la tua carriera avrebbe potuto essere compromessa. Era convinta di riuscire a salutarti, ma le sue condizioni sono peggiorate all’improvviso. Abbiamo provato a contattarti, ma non ci siamo riusciti. Mathis sei stato il suo pensiero, fino all’ultimo momento…”.
Ma Mathis non ascoltava più, reso sordo e inerme da un dolore improvviso e insopportabile.
Una rabbia enorme lo assalì, maledisse quel luogo e quel lavoro che l’avevano portato lontano quando più di qualsiasi altro momento avrebbe dovuto essere a Parigi; maledisse se stesso per non aver capito cosa stesse succedendo ad Ariel.
Mancavano due settimane al rientro previsto in Francia, solo due settimane. Perché Ariel non aveva resistito?
Non vedendolo tornare, i suoi colleghi si allarmarono ed un gruppo si mise in cammino per cercarlo. Arrivarono al villaggio che il sole era tramontato e lo trovarono ancora seduto accanto al ricevitorie del telefono con il volto stravolto. A stento riuscì a raccontare l’accaduto. Il gruppo di ragazzi prese in mano la situazione; contattarono il professore che dirigeva i lavori ed  organizzarono il rimpatrio immediato di Mathis.
Il rientro a Parigi fu terribile così come lo furono i mesi successivi.
Mathis sembrava aver perso del tutto la sua vitalità ed anche l’archeologia era diventata uno spettro nero cui sfuggire piuttosto che la passione di una vita da cui trarre forza ed energia.
Ma poco a poco reagì e si rese conto che non avrebbe potuto gettare nel nulla il sacrificio che Ariel aveva fatto: avrebbe ripreso il suo percorso e lo avrebbe fatto con la dedizione e l’impegno di un tempo, l’avrebbe fatto per Ariel.
Mentre parlava, adesso, era sereno, era tornato il ragazzo di un tempo; certamente con una ferita profonda la cui cicatrice negli anni avrebbe continuato a provocargli dolore, ma stava andando avanti, aveva ripreso in mano la sua vita e la stava vivendo nel modo migliore che poteva riuscirgli. (...)

mercoledì 1 ottobre 2014

Racconto breve: La sfida di Jörg


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Andrea scorreva rapido il giornale come ogni mattina, mentre sorseggiava il suo consueto caffè nero senza zucchero, quando fu colpito da una notizia: Jörg, figlio di un alpinista di fama mondiale, avrebbe scalato di lì a poco l’invincibile parete Nord dell’Eiger in solitaria, senza imbraghi e corde di sicurezza. Fino a quel momento nessuno aveva osato tanto.
Andrea aveva conosciuto Jörg alcuni anni prima in occasione di un’altra nota impresa di un alpinista italiano ed erano rimasti successivamente in contatto.
Quando la redazione della rivista per cui lavorava gli propose di seguire l’ascensione in diretta non ebbe esitazione e partì subito per Grindelwald.
Jörg era schivo e rifuggiva qualsiasi contatto, in particolare con i giornalisti e gli altri alpinisti che nelle ultime settimane l’avevano accusato di follia, egocentrismo e superficialità. Rivedere Andrea in quell’ambiente ostile fu per lui un sollievo, si ritrovarono con la gioia di due vecchi amici e trascorsero insieme i giorni antecedenti l’impresa.
La notte precedente la scalata, i due ragazzi sedevano in silenzio all’esterno della guesthouse alla base del ghiacciaio. Il cielo era limpido e si riuscivano a scorgere nitidamente le stelle; le cime bianche dell’Eiger, del Mönch e della Jungfrau erano illuminante dalla luce della luna nuova. Sotto quella luce sembravano così imponenti, maestose, regali. Ma non facevano paura, l’Orco non sembrava meritevole della sinistra fama di ghiacciaio assassino. Ispirava rispetto come solo la montagna sa fare. E loro erano lì, assorti in quella sensazione di pace e di calma.
Jörg ruppe il silenzio. “Tutti mi chiedono perché lo voglio fare. Mi hanno dato del pazzo, del fanatico, dell’eroe. Ma non è per questo che lo faccio.  Io non devo dimostrare niente a nessuno; non ho bisogno di catalizzare l’attenzione, di sentirmi dire 'bravo' e tantomeno mi spinge il desiderio di eguagliare o surclassare mio padre. Per me, Andrea, la montagna non è un oggetto e scalare non è un mezzo di affermazione. Non c'è nessun luogo e nessun momento al mondo in cui mi senta libero come nelle ore trascorse sulla roccia nuda o tra i ghiacci.  Ti stanchi, corri dei rischi, a volte ti fai anche male, ma la sensazione che provi ogni volta che scali una parete è davvero insostituibile.”
“Capisco le tue sensazioni, le vivo anche io da alpinista, ma non capisco perché spingersi sino al punto di rischiare la vita. L’Eiger è sempre stato il sogno di tutti e anche io desidero scalarlo, ma se già è così pericoloso farlo in sicurezza, perché hai deciso di andare così oltre? Perché farlo in solitaria?”
“Perché in quel momento ti senti completamente libero; ci sei tu e c’è la parete che stai scalando, senza legacci, senza impedimenti. Immagina di correre su un prato con delle corde che ti trattengono e poi, improvvisamente, sentire le corde che si sciolgono, le gambe e le braccia libere… scalare in solitaria ti dà la stessa sensazione, lo stesso slancio vitale. E’ difficile da spiegare ma mai come in quei momenti avverto un senso di completezza. Ti senti davvero parte della parete, come fossi una sua naturale appendice. Non hai paura, senti che non può accaderti nulla. Sei pervaso da un senso di profonda fiducia. Fiducia nella montagna, fiducia in te, nei tuoi piedi e nelle tue mani. E conta solo quello. Scali sentendo solo il rumore del vento e dei tuoi battiti. E quando arrivi in cima, non è il senso di vittoria sui pericoli della natura quello che provi. E’ un senso di calma infinita, di appagamento, di pienezza.”
“Ma non è anche un modo per dimostrare a te stesso che ce la puoi fare? Non c’è una componente di sfida o di vanità?”
“Vanità senz’altro no. Una componente di sfida c’è ma non con la natura. La montagna non è da sfidare e sconfiggere. La montagna va rispettata e approcciata con umiltà. L’errore di molti alpinisti è quello di non rendersi conto di questo e da ciò derivano anche molti incidenti. L’uomo ha sempre avuto la cieca e ottusa presunzione di poter fare della natura ciò che voleva ma, ripeto, il rapporto così impostato è sbagliato. Perderai sempre. Devi sapere quando fermarti. Devi sapere quando tornare indietro, quando rinunciare. Non devi mai sottovalutare i segnali che la montagna ti dà e devi accettarli. Io amo scalare più di ogni altra cosa al mondo ma la vita non vale una montagna.  La sfida, sai Andrea, è un’altra e forse anche per te è così: la sfida è con te stesso. Ma non nel senso di voler dimostrare di essere il più bravo, il più resistente ed il più forte di tutti. La sfida è con la tua paura e la tua umanità. Scalare ti aiuta a conoscere te stesso, a misurare le tue capacità, a valutare le tue attitudini e a superare i tuoi limiti. Ti aiuta a crescere e a raggiungere una maggior consapevolezza di te. E questo ti aiuta in montagna come nella vita di tutti i giorni. In montagna ti consente di ottenere risultati che prima ti sembravano irraggiungibili; nella vita di tutti i giorni ti fa capire qual è la tua posizione nel mondo, ti dà una maggiore capacità di concentrazione sugli obiettivi, maggiore sicurezza e, per certi aspetti, anche maggiore leggerezza nell’affrontare le cose. Impari a dare il giusto peso a tutto. Ci sei tu e lo senti, ti senti in ogni cellula, in ogni pensiero e sai che non potrai perderti mai.”
“Perché proprio l’Eiger?” chiese Andrea.
“Perché lo sogno fin da quando ero bambino. In Austria come in Italia ci sono decine di montagne meravigliose, ma la prima volta che l’ho visto ho sentito che volevo scalarlo. E tre anni fa l’ho scalato per la prima volta; negli anni successivi ho percorso diverse vie, ma la Via Heckmair è rimasta nel mio cuore. E’ una via intensa, piena di vita, senti la roccia pulsare ad ogni movimento. Il passo dallo scalarla con le corde a volerla vivere in solitaria è stato breve. L’ho desiderato subito e non mi son tolto più quel pensiero dalla testa fino a qualche mese fa, quando ho sentito che quel momento era arrivato, che ero pronto per poterlo fare. L’età giusta, la giusta preparazione fisica e mentale.”
“E tuo padre cosa ne pensa? Ha glissato con la stampa.”
“Sì, alla stampa si è limitato a dire che era una mia scelta e che ogni alpinista è responsabile delle proprie decisioni. A casa abbiamo discusso, ad un certo punto abbiamo anche litigato. Mi ha detto che era una pazzia, ma lo ha detto solo perché sono suo figlio. In cuor suo, lo so che ha capito, che ha capito le ragioni che mi hanno spinto ad affrontare questa impresa. So che è spaventato come lo sarebbe qualsiasi genitore, forse anche di più; ma quella parete l’abbiamo scalata insieme e sa che ce la posso fare.”
Quel momento di confidenza lasciò ad Andrea una sensazione positiva. Tuttavia aveva bisogno di capire meglio quel ragazzo introverso e aveva bisogno di guardare oltre l’apparenza di una sfida che sapeva di superbia.
Andarono a dormire.
La notte Andrea non chiuse occhio e all’alba sgusciò dalla sua camera. Uscì all’esterno e rimase senza fiato nel guardare il panorama che gli si stendeva davanti. Il bianco delle cime riluceva nell’aria leggera e nei colori delicati di quelle  prime ore del mattino.
Dopo poco anche Jörg si alzò, lo raggiunse e si salutarono silenziosamente con un cenno del capo. Il momento era quasi arrivato. L’aria era densa di emozione, adrenalina, timore.
I primi giornalisti cominciarono ad arrivare, le prime videocamere si accesero ad immortalare il paesaggio.
Jörg in breve fu pronto per la partenza, era calmo e concentrato. Lanciò all’amico giornalista uno sguardo carico di energia e fiducia; quella stessa fiducia di cui gli aveva parlato il giorno precedente.
Andrea si posizionò dove meglio poteva seguire l’ascensione.
Jörg attaccò dalla variante a destra del Primo Pilastro, procedendo velocemente per i primi corti gradini, le cenge e i canali sino al Pilastro spezzato.
E da qui il traverso orizzontale verso destra sino all’inizio della Fessura Difficile e poi sempre più velocemente verso l’alto, attraverso i passaggi chiave: le lisce placche del Traverso di Interstoisser, il bivacco del Nido di rondine e subito  dopo il primo ed il secondo Nevaio.
Jörg saliva spedito con i soli ramponi e le piccozze. Era veloce, fluido, caparbio.
Superò agevolmente il Ferro da Stiro ed il Bivacco della Morte così chiamato per la tragedia del 1935 in cui due alpinisti tedeschi colti dal maltempo vi persero la vita.  Superò poi il Terzo Nevaio. Proseguii oltrepassando i punti successivi sino alla Traversata degli Dei procedendo poi, in orizzontale, fino al Ragno Bianco. Andrea ricordava bene la fama di quel punto e i pericoli che in quel punto non avevano risparmiato numerosi alpinisti in passato.
Jörg ne fu velocemente fuori superando il tratto più esposto, ma improvvisamente una scarica di sassi scese dall’alto sfiorandolo.
Andrea chiuse gli occhi, un silenzio di morte calò alla base del ghiacciaio e gli sembrò che il tempo si fermasse. Dopo interminabili istanti un urlo di gioia si levò nell’aria, riaccostò il viso al binocolo e vide Jörg in salvo; una minuscola cengia sopra di lui lo aveva protetto dall’impatto con i massi più grandi.
Andrea sentiva il cuore pulsare con forza, i battiti accelerati dall’ansia e dall’adrenalina. Jörg riprese senza ombra di esitazione la sua corsa sul ghiaccio, una piccozza avanti l’altra, dritto fino alla luminescente fessura di quarzo.
La parte più rischiosa era superata.
Il giovane alpinista proseguiva ormai inarrestabile su per i Camini terminali, lungo l’affilata e instabile cresta di neve tra le pareti Nord e Nord Est.
Mancava pochissimo. Un piccolo errore sarebbe stato fatale, ma Andrea non voleva e non poteva pensare in negativo.
L’obiettivo era vicino, l’impazienza cresceva.
Jörg raggiunse il Nevaio Finale e poi la Mittellegigrat, affondando pericolosamente nei cumuli di neve fresca. La fatica stava prendendo il sopravvento, arrancò, cadde ma in un guizzo di energia fu di nuovo in piedi.
Andrea tratteneva il respiro.
Mancavano pochi metri, vide Jörg cadere ancora ma veloce rialzarsi e in un’ultima stremata corsa conquistare la vetta. Ce l’aveva fatta, era in cima!
Lo vide esultare con le braccia alzate.
Intorno ad Andrea si levò un urlo liberatorio. Un clima di festa e di gioia si diffuse tra la folla di giornalisti e curiosi che si erano accalcati per assistere all’ascesa.
Quando Jörg rientrò alla base era davvero raggiante. Suo padre che fino a quel momento era rimasto in disparte, gli corse incontro e lo strinse orgoglioso.
Fu davvero un’esperienza meravigliosa, non solo perché Andrea poté raccogliere la testimonianza di un’impresa significativa a livello alpinistico, ma anche e soprattutto perché gli aveva fornito un punto di vista d’eccezione da cui guardare il rapporto uomo-montagna. In un ambiente in cui troppo spesso la competizione diventa l’elemento preponderante e la montagna un mero terreno per dimostrare la propria bravura, questo ragazzo, con il suo approccio schivo e umile, aveva regalato una nuova prospettiva al mondo dell’alpinismo ed aveva altresì mutato la fama di quel ghiacciaio: imponente, temibile, ma non più irraggiungibile e mortale.

martedì 30 settembre 2014

Racconto breve: Tutt'intorno silenzio

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Patagonia Meridionale. Mentre l’aereo atterrava sotto una pioggia fitta Giulia ripensava alla prima volta che era arrivata a Punta Arenas e alle sensazioni che avevano accompagnato quel viaggio.
Un devastante incendio aveva distrutto un’estesa area del parco nazionale del Torres del Paine e, quando, dopo alcune settimane, furono sedate le fiamme, un team internazionale di studiosi accorse sul posto per una prima stima dei danni.
Giulia, ricercatrice di biologia ambientale, fu tra i primi ad arrivare nell’area; quando la piccola imbarcazione che, dalla cinta più esterna del Parco, attraversando il Lago Peohè, l’aveva condotta al Rifugio Grande, una delle zone più colpite dall’incendio, ciò che vide fu uno spettacolo che la lasciò sgomenta.
Come studiosa, come alpinista, come essere umano.
Aveva visto le immagini del Parco prima che le fiamme lo divorassero e la bellezza di quei paesaggi l’aveva colpita profondamente: i grandi laghi dall’acqua turchese, le torri di granito, le foreste dense di vegetazione erano un palpitare di vita.
Nulla restava ormai, se non un debole battito di quel cuore pulsante nelle lande desolate della Patagonia Meridionale. Davanti a sé Giulia vide un paesaggio di morte in cui il verde delle foreste e dei prati ed i colori dei fiori avevano ceduto il passo a pendii anneriti dalle fiamme, prati coperti di cenere, tronchi nudi e scuri che, come scheletri in una macabra danza, si piegavano e scricchiolavano sotto la forza imperiosa del vento.
Ed era rabbia, tristezza, impotenza quella che Giulia leggeva negli occhi dei ranger, dei funzionari della regione, degli abitanti; persone che vivevano in quei luoghi e che da quei luoghi traevano anche il proprio benessere ed il proprio sostentamento.
Ma adesso tutto era distrutto. Per negligenza, per superficialità. Per un fuoco acceso in una zona non autorizzata.
Per circa un mese Giulia aveva camminato, fotografato, preso appunti, fatto calcoli; si era confrontata con gli altri studiosi; insieme avevano steso stime e fatto previsioni per il futuro. Un mese intenso, faticoso e doloroso per la vista e per il cuore, perché anche la scienza davanti alla morte e alla distruzione non poteva rimanere fredda ed impassibile.
Il team di scienziati accertò che furono distrutti circa diciassettemila ettari della riserva con danni enormi alla flora e alla fauna: stimarono che i primi significativi risultati di un’attività di recupero dell’area, pur intervenendo immediatamente, sarebbero stati visibili non prima di quindici anni.
Giulia rientrò in Italia con un profondo senso di amarezza; si occupava da dieci anni di disastri ambientali, ma ogni volta non riusciva a trovare una giustificazione, un’attenuante alla superficialità umana.
Un luogo con una varietà così significativa di specie vegetali e animali, tanto da essere proclamato riserva dello biosfera negli anni settanta, messo in ginocchio da un atto di noncuranza. Il colpevole individuato e processato aveva ammesso le proprie responsabilità; ma non poté qualche giorno trascorso in carcere o il pagamento di multa rimediare ai danni cagionati.
Nei tre anni successivi il team di scienziati di cui Giulia faceva parte fu coinvolto in ulteriori e più approfonditi studi, fu steso un piano di recupero dell’ecosistema boschivo e lacustre e furono prontamente avviate tutte le attività necessarie per metterlo in pratica.
Dopo i sopralluoghi compiuti nel corso del primo anno e mezzo successivo all’evento, Giulia non era più tornata in Patagonia; aveva svolto i propri studi alla scrivania nel confortevole dipartimento della sua università. Le immagini di quel disastro erano dunque lontane dagli occhi ma difficilmente Giulia avrebbe dimenticato il senso di sconfitta e di impotenza che aveva provato davanti a quello scempio.
Erano passati tre anni dall’incendio. Una mattina di luglio, terminato il ricevimento di alcuni studenti in apprensione per gli esami della sessione estiva, Giulia aveva ricevuto una mail recante un aggiornamento sugli ultimi risultati dell’attività di ripristino del Parco e, con sollievo, aveva appreso che, nonostante le condizioni climatiche estreme che rendevano assai più difficile l’attecchire di piante giovani e delicate, la natura stava riuscendo a riprender possesso dei propri luoghi riaffermando la propria forza e dignità.
Di lì a due settimane avrebbe avuto inizio il suo periodo di ferie e non ebbe esitazione alcuna: era arrivato il momento di tornare nella regione dei Magallanes; non solo come scienziata, ma come essere umano; e nulla avrebbe avuto in contrario Dominique, suo compagno e fotogiornalista, che senza batter ciglio l’avrebbe accompagnata nel viaggio.
Le due settimane erano volate nei preparativi della nuova avventura che li avrebbe portati a sfidare l’inverno australe. Avevano contattato il Conaf, l’ente d’amministrazione del Parco per conoscere lo stato dei sentieri: la maggior parte di essi era chiusa ai turisti per eccessivo innevamento, ma con un pass speciale concesso per scopi scientifici, avrebbero potuto accedere anche alle aree più remote.
L’aero toccò finalmente terra, dopo un turbolento volo durato quattordici ore.
Un van privato li condusse da Punta Arenas all’ingresso della riserva; Giulia sentiva il cuore batterle forte: sapeva che per quanto il recupero dell’area stesse avvenendo in maniera piuttosto veloce, avrebbe trovato ancora una realtà fortemente segnata dall’incendio.
Quando scesero dal bus una pioggia sferzante colpì i loro volti: da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattevano sulla regione. Indossarono i pantaloni e le giacche antipioggia, coprirono gli enormi zaini con i teli impermeabili e si avviarono lungo il sentiero che dall’amministrazione del parco li avrebbe portati al Rifugio Grande, sul Lago Peohè, una delle aree più colpite dalle fiamme; di lì avrebbero verificato lo stato dei luoghi fino alla Valle Francese e, successivamente, avrebbero raggiunto l’area del Lago Grey, anch’essa gravemente danneggiata dal fuoco.
Nelle cinque ore di cammino che impiegarono per raggiungere la prima tappa, non incontrarono nessuno; i rari turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, si fermavano  ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. Nei mesi invernali in pochi andavano oltre: un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, veniva restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione.
Nella cinta più esterna della riserva, Giulia e Dominique incontrarono soltanto mandrie di cavalli selvaggi che correvano sotto le pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno; dove l’erba era più alta, spuntava di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca; i guanaco si muovevano flemmaticamente nella tundra; alcuni grossi condor volavano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
In quell’area nulla preannunciava lo spettacolo terribile che avrebbero incontrato più avanti, oltre la prima cintura di basse colline che li separava dal Lago Peohè.
Addentrandosi nella cinta più interna della riserva, i pochi sentieri sgombri di neve si erano trasformati in ruscelli di acqua e fango. La pioggia aveva reso i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi. Il vento soffiava con raffiche violente e repentine che superavano i cento chilometri l’ora.
Man mano che procedevano, la vegetazione verde e rigogliosa lasciava spazio a pochi arbusti secchi, alberi senza fronde dai tronchi squarciati. E non era il passeggero effetto dell’inverno; quegli alberi non sarebbero rifioriti in primavera. La desolazione che lentamente si impadroniva del paesaggio era la traccia evidente e dolorosa del percorso che le fiamme avevano compiuto nel divorare il parco.
Dominique e Giulia raggiunsero il Rifugio Grande quando il sole era ormai quasi tramontato; giunti all’interno lasciarono gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia nell’unica stanza dotata di stufa a legna. Quel rifugio era la sola struttura aperta ed offriva unicamente un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto gas per cucinare, un letto ed una doccia calda che dava su una finestra malandata da cui entravano spifferi di aria gelida.
Nel rifugio trovarono, oltre ad un impiegato della struttura e ad un ranger, soltanto un gruppo di simpatici ragazzi americani, accompagnati dalla loro guida.
Dopo un frugale pasto, Giulia e Dominique si intrattennero nella sala riscaldata, alla luce del fuoco che ardeva nella stufa.
Mentre chiacchieravano con i ragazzi americani, fermi lì da due giorni a causa del maltempo, entrò il ranger, un uomo di mezza età, il viso solcato da profonde rughe, segno degli anni, del sole e del freddo che, sedutosi pesantemente su una vecchia panca di legno chiaro, rincuorò il gruppo su un probabile miglioramento, il giorno successivo, delle condizioni meteo.
I ragazzi americani sarebbero potuti rientrare in sicurezza all’amministrazione, dove li avrebbe attesi un van per Puerto Natales, il centro abitato più vicino, mentre Dominique e Giulia avrebbero potuto compiere con minor fatica il loro percorso.
Il ranger, che era stato informato del pass speciale ottenuto da questi ultimi, chiese loro cosa li avesse portati in Patagonia. Giulia raccontò della sua esperienza con il team di studiosi ai tempi dell’incendio e del desiderio di vedere dal vivo quali progressi vi fossero stati nel recupero ambientale.
Il ranger, nel rammentare i terribili giorni dell’incendio, non poté trattenere la propria rabbia e il proprio dispiacere: “non dimenticherò mai la sensazione di sconfitta nel vedere ettari ed ettari di parco andare a fuoco, l’immagine delle fiamme che veloci divoravano gli alberi e le piante, gli animali che fuggivano terrorizzati. Le ore passavano e i focolai aumentavano. Ci sentivamo impotenti. In quei giorni il vento era particolarmente forte e i vigili del fuoco non riuscivano a dominare l’incendio; ci vollero giorni per sedare le fiamme. Dovemmo evacuare il parco e non fu facile; alcune vie di fuga erano chiuse e i turisti erano nel panico. Il nostro parco non è estraneo ad eventi di questo genere; ci ritenevamo preparati a fronteggiarlo, ma la furia del fuoco e del vento è quanto di più incontrollabile esista. E ciò che fa rabbia è che eventi di questo genere potrebbero essere evitati; almeno ogni volta che dipendono dalla distrazione e dalla noncuranza dell’uomo.
Lavoro da sempre in questo Parco, ne conosco ed amo ogni angolo ed ogni singolo aspetto: la natura prepotente e selvaggia, la meraviglia dei suoi ghiacciai e dei suoi laghi nelle giornate di sole e silenzio. E credo che ci siano pochi luoghi che possano insegnare davvero che cosa sia il rispetto per l’ambiente che ci circonda: luoghi  in cui la natura ed il clima non conoscono regola e pacatezza risultando anche temibili e imponendo, tassativamente, un approccio rispettoso e responsabile.
Ma non è questo l’approccio più diffuso nei visitatori che, troppo spesso, cercano in montagna solo un’esperienza da raccontare, una sfida personale da affrontare. Nei volti e negli atteggiamenti di molti vedo arroganza e superficialità.
Ma la montagna, e la natura in generale, è umiltà, rispetto, in un certo senso anche devozione. E ciò è chiaro, per fortuna, anche al nostro Governo che da anni ha adottato una politica di protezione delle proprie risorse naturali, soprattutto in aree cruciali come questa, e non è ammissibile che i sacrifici e gli sforzi di tutti noi siano vanificati da una sigaretta buttata in un bosco o da un fuoco acceso in aree non consentite. Noi diamo istruzioni  precise all’ingresso nel Parco, le ribadiamo su appositi cartelloni collocati in ogni dove, e le ripetiamo all’infinito anche a voce, ma episodi come quest’ultimo, dimostrano che l’indifferenza dell’uomo nei confronti della natura non conosce limiti.
Il Conaf ha fatto tanto per conservare intatti questi luoghi e la loro biodiversità e, se per noi il turismo è fondamentale, è altrettanto fondamentale che queste zone siano preservate e rispettate. Crediamo molto in un approccio libero e consapevole e desideriamo continuare a dare la possibilità a tutti di un’esperienza selvaggia a contatto con la natura. Non dappertutto è così: penso al Parco dei Los Glaciares: il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette un approccio tipicamente economico alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza. Il concetto stesso di parco nazionale è diverso: non strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa. Non so se voi avete avuto modo di visitarlo: una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate. E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo.  Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei. L’attrattiva della Patagonia è la possibilità di misurarsi con la natura e di esplorare luoghi incontaminati e noi vogliamo che possa continuare ad essere così per sempre, in un equilibrio consapevole tra uomo e natura”.
Le parole accorate del ranger riflettevano lo stato d’animo che Giulia, nei viaggi precedenti, aveva colto in tutti coloro con cui aveva parlato e sentì una profonda tristezza, accompagnata allo stesso tempo dalla voglia e dalla fiducia in un cambiamento. Quando rientrarono nella loro fredda stanza, si addormentò pensando alle campagne di sensibilizzazione ambientale che il suo dipartimento aveva intenzione di avviare in Italia nei mesi successivi. Solo l’educazione poteva produrre un mutamento reale nell’approccio alla natura ed era fondamentale intervenire prima che fosse troppo tardi.
Il mattino successivo Giulia e Dominique lasciarono il rifugio che dava sull’immensa distesa d’acqua del lago Peohè le cui acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scurivano sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradavano.
Si diressero verso la Valle Francese. Le raffiche di vento erano ancora più violente del giorno precedente, ma impararono a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arrivava, impietosa, sferzante.
Lungo il tracciato che correva basso lungo il lago, i segni dell’incendio cominciarono a divenire ancora più evidenti: le raffiche di vento spazzavano l’acqua del lago che, in onde nebulizzate, si insinuava come nebbia tra gli alberi completamente anneriti dalle fiamme in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale. La vegetazione era bassa e rada; gli arbusti più giovani, che emergevano nel paesaggio desolato, ondeggiavano piegati dalla pioggia e dal vento. I resoconti e le previsioni che Giulia aveva letto all’Università erano fedeli alla realtà? Ebbe timore che fossero troppo ottimistici ed avvertì un senso di avvilimento.
Gli zaini pesanti ed il meteo avverso rendevano lento l’incedere di Giulia e Dominique. Raggiunsero infine la Valle Francese, dove l’abbondante nevicata aveva cancellato le tracce dell’incendio, rendendo il paesaggio immacolato. Nei fugaci momenti in cui le nuvole dense si diradavano, dalla foschia emergevano maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popolava di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffiava via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazzava via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegnava i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambiava, nella forza libera e dirompente della natura Giulia sentiva la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo. E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, coglieva l’essenza stessa della propria libertà.
Si fermarono nell’accampamento situato nella valle; benché chiuso ai turisti era l’unico luogo sicuro. Era pomeriggio ormai, aveva ricominciato a nevicare ed il cielo scuro in lontananza scoraggiava dal procedere oltre. Le nove ore di camminata li fecero crollare in un sonno profondo e senza sogni.
Il mattino successivo, Giulia aprì lentamente gli occhi e, ancora indolenzita, sgusciò fuori dalla tenda. Davanti a lei una distesa di neve e ghiaccio, il sole basso che faceva appena capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida.
Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento spezzava la quiete ed il silenzio quasi surreale dell’alba australe.
Dominique la raggiunse e le sorrise. Rimasero qualche minuto in silenzio, l’uno accanto all’altra. Nulla c’era da dire davanti alla bellezza di quel paesaggio; qualunque parola avrebbe sciupato l’atmosfera quasi magica di quegli istanti.  Un senso di pace li pervase e sentirono forte più che mai il senso di appartenenza a quei luoghi, agli alberi, ai boschi, ai laghi, alle montagne, alla quiete armoniosa della natura.
L’abbondante nevicata della notte rendeva imprudente accedere alla terza tappa seguendo il tracciato più lungo. Ripercorrendo al contrario il sentiero del giorno precedente e camminando di buon passo, avrebbero potuto raggiungere il Lago Gray in giornata.
Smontarono rapidi la tenda e, raccolta l’attrezzatura, ripresero il cammino.
Circondati dai ghiacciai da cui si staccavano di tanto in tanto cumuli di ghiaccio e neve, percorsero veloci il primo tratto del tragitto.
Giunti all’altezza del Rifugio Grande erano già esausti, ma decisero di procedere oltre e in un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquistarono la vista del lago Gray, con le sue acque scure e austere. Costeggiandone le sponde raggiunsero l’omonimo ghiacciaio che si tuffava nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiariva sino al cobalto. Nell’acqua iceberg azzurri galleggiavano l’uno accanto all’altro, sfiorati dagli ultimi fiochi raggi del sole.
Era nell’area del Lago Gray che tre anni prima era divampato l’incendio ma, del tutto inaspettatamente, proprio lì Giulia trovò che le attività di recupero avessero avuto maggior successo. Nei tronchi abbattuti e nella vegetazione bassa e chiara si coglievano ancora le tracce dell’evento, ma man mano che si avvicinavano al ghiacciaio, il bosco diventava più fitto e sano. I resoconti dicevano il vero. Giulia non riuscì a trattenere la commozione. Lei, gli altri studiosi che avevano lavorato giorno e notte per questo Parco e tutti coloro che materialmente avevano partecipato all’attività intesa a proteggerne, prima, e ripristinarne, poi, l’ecosistema avevano fatto qualcosa di grande e tutti avevano in comune l’immenso amore per la natura. La strada era ancora lunga, ma i primi risultati iniziavano lentamente a notarsi. La natura si stava riappropriando di sé stessa, gli animali stavano con fiducia ritrovando il loro posto; gli equilibri si stavano lentamente ricostituendo.
Trascorsero la notte a poca distanza dal ghiacciaio, cullati dal rumore del vento e dallo sciabordio dell’acqua che lambiva i bordi delle lingue di ghiaccio azzurro.
Il giorno successivo una nuova bufera si abbatté sulla zona rendendo impossibile addentrarsi oltre. Un battello li portò dall’altro lato del lago, attraversandolo nel suo tratto più stretto e da lì con un van raggiunsero Punta Arenas.
Mentre Giulia lasciava quei luoghi sentì dentro di sé una grande emozione.
Ora, pensò tra sé, non resta che confidare nel futuro e nel potere dell’educazione, affinché l’ambiente, lungi dall’essere un concetto astratto e lontano dall’uomo, possa essere percepito come qualcosa di cui quest’ultimo fa parte e di cui si sente responsabile; qualcosa da cui dipende la sua stessa vita.

venerdì 26 settembre 2014

Racconto breve: La vecchia cartiera

(All rights reserved)
Inforcata la bici, Dominique pedalava senza fretta; con sé, soltanto un quaderno, una vecchia Leica e la voglia di esplorare i dintorni.
Era la prima volta che percorreva quella strada che, incorniciata da una nuvola di foglie gialle, costeggiava le acque lente e opache del fiume. I contorni della campagna che sfumavano nella nebbia sottile, gli stormi di uccelli silenziosi, la quiete delicata delle prime ore del mattino creavano un’atmosfera surreale.
Lungo il percorso la strada si apriva, inaspettatamente, in un grande spiazzo di cemento. Una piccola diga dagli ingranaggi arrugginiti incanalava l’acqua del fiume e, alle sue spalle, una fabbrica dismessa si stagliava nell’aria fumosa. Un edificio di mattoni rossi, l’intonaco eroso dalle intemperie, ed una ciminiera scura e solitaria era quanto restava di una vecchia cartiera.
Dominique si fermò catturato dall’immagine e dalle sensazioni che quel luogo evocava: pensò a quante storie dovessero essere racchiuse in quelle mura, a quante vite fossero passate di lì. Un edificio di mattoni rossi che raccontava la quotidianità di uomini e donne che avevano lavorato in questo paese e per questo paese; la storia di una generazione che, spesso, aveva lasciato la propria terra, che aveva sofferto e combattuto per i propri diritti. Chiuse gli occhi e gli sembrò quasi di poterle sentire quelle storie, di poter percepire i pensieri e le emozioni di chi, ogni mattina, aveva osservato quello stesso paesaggio dalle finestre quadrettate della fabbrica.
Sbirciò all’interno della fabbrica da una finestra rotta. Cercò l’ingresso trovando una porta malmessa, ne forzò la serratura e i battenti, cigolando, si aprirono su un locale dal soffitto altissimo dove grossi macchinari giacevano nella polvere e nelle ragnatele; ne accarezzò con lo sguardo le forme immaginando lo stridere degli ingranaggi nel dare vita a lunghi fogli di carta. Nell’aria aleggiavano ancora il sentore acre della cellulosa e l’odore del cloro. In fondo alla stanza una stretta scala conduceva al piano superiore che ospitava, dopo una piccola anticamera, quello che doveva essere stato l’ufficio del titolare della cartiera: le pareti rivestite di una sbiadita carta da parati a righe, una robusta scrivania di legno scuro ed una poltrona di velluto verde ingrigita dal tempo e dalla polvere. Al medesimo piano, al fondo di un corridoio, Dominique scorse una porta senza più i cardini che dava su un piccolo ufficio illuminato da una finestra malandata; accanto ad essa c’era una pesante scrivania erosa dai tarli su cui troneggiava una macchina da scrivere con i tasti rotti; in un angolo, vicino ad un attaccapanni con su un vecchio cappello consunto, giaceva un mucchio di faldoni coperti di polvere. Dominique vi si avvicinò, si abbassò e aprì uno dei fascicoli; conteneva buste paga e alcune lettere. Su un foglio ingiallito dal tempo, si decifravano a mala pena una data, Milano 16 settembre 1985, e poi più in basso una firma, Nino Parisi. La polvere lo fece tossire; diede un ultimo sguardo attorno ed uscì.
All’esterno vide un’anziana donna che prima non aveva notato.
Sedeva su un muretto malmesso che dava sulla piattaforma ferrosa della diga, lo sguardo rivolto ad una finestra dell’edificio. Indossava un cappotto scuro troppo largo per il suo corpo minuto ed una vecchia e lisa sciarpa di lana blu che stonavano con i capelli grigi raccolti ordinatamente sulla nuca e le piccole perle che pendevano ai lobi delle orecchie conferendole un’aria composta e dignitosa.
Istintivamente Dominique le si avvicinò, e volse lo sguardo verso quella stessa finestra al secondo piano che l’anziana guardava malinconicamente. La donna, che sembrava non aver notato la sua presenza, ruppe invece il silenzio. Senza voltarsi, con voce delicata che tradiva un impercettibile accento siciliano, disse: “sapessi quanti anni ho lavorato in quella fabbrica. Ogni mattina, all’alba, qualunque fossero le condizioni del tempo, prendevo la mia bicicletta e venivo qui. La ricordo ancora la mia bicicletta, me l’aveva regalata mio marito. Era bella, rossa come il mio colore preferito. Me la regalò quando mi presero a lavorare qui. Mi disse ‘Mela – così mi chiamava mio marito – Mela, adesso hai bisogno di una bicicletta, non puoi andare a lavoro a piedi. Sapevo che era una scusa per farmi un regalo; i soldi erano pochi, sai. Ma accettai di buon grado perché una bici tutta mia non l’avevo mai avuta. Quando ero ragazzina, in Sicilia, rubavo le bici sgangherate dei miei fratelli e pedalavo per ore. Mi sentivo libera. Me lo ricordo ancora l’odore pungente della campagna d’estate, l’erba gialla, alta, il sole bollente. E ricordo anche le botte che prendevo quando tornavo a casa: ero una femmina e dovevo pensare a cucinare e lavare, ma a me quella vita non piaceva. Volevo sentirmi libera, come quando pedalavo in campagna. A vent’anni sposai mio marito Nino. In quel periodo c’era tanta miseria, ma noi eravamo giovani e avevamo tanti sogni. Un amico di Nino che viveva a Milano raccontò che qui la vita era difficile ma che c’erano anche tante opportunità. Fu così che lasciammo la Sicilia ed il profumo dei fiori e dell’erba. Entrambi venimmo a lavorare in quest’azienda, lui come ragioniere e, dopo qualche tempo, anch’io come segretaria. I primi mesi furono duri ma eravamo felici perché ci sentivamo liberi di inventare il nostro futuro. Avevamo tutta la vita davanti a quei tempi. Tutta la vita.”
Su quell’ultima frase la voce le si incrinò.
“La vedi quella finestra al secondo piano? Era la stanza di mio marito e quando la sera lui si doveva trattenere più a lungo, io uscivo e mi mettevo seduta qui, su questo muretto, e lo guardavo lavorare, aspettando che finisse. Faceva finta di arrabbiarsi, mi diceva di tornare a casa, che non aspettassi nell’umido della sera, ma in realtà era contento che restassi. Quando finiva, mi faceva un cenno con la mano, spegneva la luce e correva giù. Da me.”
Si fermò un attimo, poi riprese.
 “Non c’è più, sai, da un mese non c’è più. Ma la vita è stata generosa con noi. Nonostante le difficoltà, abbiamo vissuto insieme, sempre l’uno a fianco all’altra. Le giornate di lavoro erano lunghe, pesanti. Non avevamo diritto quasi a nulla e ad ancor meno avevano diritto gli operai che lavoravano qui. Sentivo i capi urlare e minacciarli. E i sindacati non ci aiutavano abbastanza, né a noi né a loro. Ci iscrivemmo anche al partito, servì a poco, ma noi ci abbiamo creduto, abbiamo lottato e ci piaceva pensare di aver fatto qualcosa per migliorare questo mondo”.
Dopo una breve pausa in cui si perse tra i ricordi proseguì: “poi la giornata finiva e, pur stanchi, passavamo intere serate a leggere di viaggi in terre lontane; non avevamo soldi per viaggiare, ma era bello quando arrivava la domenica e potevamo scappare al lago in bicicletta, stenderci sul prato e sognare ad occhi aperti guardando il cielo. Quello era il nostro modo di essere liberi. Mai nessuno ha potuto rubare i nostri sogni, quelli realizzati e quelli che sono rimasti nella nostra mente.
E, ora, io torno qui, ogni mattina. Mi piace ricordare quei tempi. E mi piace pensare che lui sia ancora lì, dietro a quella finestra, a lavorare, guardandomi distrattamente”.
Si voltò verso Dominique mostrando un viso con una profonda ruga che solcava la fronte, il dolore e, allo stesso tempo, un senso di pace negli occhi ancora blu.
Si alzò a fatica dal muretto.  Gli rivolse un ultimo sguardo, un tenue sorriso e si allontanò.
Dominique la guardò camminare lentamente stringendosi nel cappotto troppo largo finché la sua figura svanì nella nebbia leggera.
Alzò lo sguardo verso la finestra malandata. Pensò a quella storia, a quel pezzo di intimità che la donna aveva voluto condividere con lui, pensò a quel passato e al presente. Pensò a sé, alla propria storia e alla storia di tutti quei ragazzi che viaggiano per il mondo cercando il proprio futuro e la propria libertà.
Ripensò alla sensazione di fiducia che aveva provato mentre l’aereo si staccava da terra per portarlo verso una nuova vita e ripensò alla sua città mentre sfumava all’orizzonte: erano passati quattro anni da allora e Dominique non poteva più ignorare il senso di profondo disagio che avvertiva e che l’incontro con l’anziana signora aveva acuito. Pensò con amarezza a tutte le volte in cui aveva permesso a degli estranei di entrare nella sua vita, sgretolando le sue aspirazioni e cancellando la sua libertà. Pensò ai diritti quotidianamente calpestati: gli stipendi pagati saltuariamente, gli orari di lavoro massacranti, le domeniche perdute, le vessazioni. A cosa erano servite le battaglie e i sacrifici delle generazioni passate? La cieca illusione della donna cedeva purtroppo il passo al disincanto della sconfitta e alla rabbia che Dominique leggeva dentro e fuori di sé. Aveva lasciato la sua città per diventare giornalista; avrebbe voluto scrivere e fotografare la vita ed invece si trovava inchiodato in una redazione, imbrigliato in assurde logiche dettate da equilibri che con la vita nulla avevano a che vedere, in un paese in cui i diritti sono solo petizioni di principio, norme mal scritte in antiquati testi di legge.
Ma non era ciò che voleva per sé e per la sua giovane famiglia.
“Nessuno può rubare i nostri sogni e la nostra libertà” aveva detto la donna.
La mente andò oltralpe. Ancora un’illusione forse, ma valeva la pena tentare, la sua bimba di pochi mesi aveva ancora diritto di sognare.
Afferrò la bici e, sotto i raggi tiepidi del sole del mattino, in una nuova consapevolezza, Dominique riprese la sua corsa verso il futuro e, forse, stavolta verso la libertà.

mercoledì 3 settembre 2014

Reportage: Patagonia d'inverno

da "Reportage  - La Patagonia d’inverno"
di Cristina Romano. Foto di Andrea Giuseppe Sanfilippo
(All rights reserved) Nota: è possibile visionare l'elenco completo delle foto sul sito www.agsanfilippo.eu 

Una regione che si estende per migliaia di chilometri tra pianure verdi e vulcani, aree desertiche e distese di ghiaccio, parchi incontaminati, picchi che si protendono verso il cielo nascosti tra la nebbia e le nubi dense, fiumi tortuosi, laghi immensi, il mare che si perde in fiordi labirintici, il sole basso che di rado fa capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida. Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento, che soffia con raffiche violente ed improvvise, spezza la quiete ed il silenzio quasi surreale della Patagonia nei giorni d’inverno.
Ma è proprio quando la natura diventa più prepotente e le condizioni climatiche più estreme che riesci ad afferrare davvero il fascino primordiale e selvaggio di questi luoghi.
Nel Nord, il Distretto dei Laghi, con il suo paesaggio delicato e rassicurante, i numerosi specchi d’acqua, i pendii erbosi e i prati luccicanti ricorda le campagne della Germania meridionale.  Nel clima umido e piovoso di una domenica d’inverno, il piccolo villaggio di Puerto Varas poltrisce adagiato tra il lago Llanquihue e basse colline verdi.  I negozi sono chiusi e per strada ci sono poche persone.  Case basse si susseguono una dopo l’altra; nei piccoli giardini che le circondano troneggiano alberi nudi dai grossi tronchi sui cui rami uccelli dal petto chiaro verseggiano con malagrazia.  Improvvisamente le nuvole si diradano lasciando spazio a qualche raggio di sole che timidamente illumina l’enorme lago.  Un grande arcobaleno si spiega sullo specchio d’acqua e al di là di esso, immerso tra le nubi, il maestoso vulcano Osorno e tutt’intorno una lunga catena di montagne innevate.  Un lungo marciapiede cammina lungo la riva; al termine di esso, sotto la collina, una grande statua di rame che raffigura una donna con le braccia protese verso il vulcano, a invocarne la benevolenza e a fermarne la lava rovente.
Inerpicandosi verso la collina si raggiunge un belvedere da cui si ha un’ampia visuale del paese, di cui si coglie nitidamente l’impronta europea, effetto dell’immigrazione tedesca dell’Ottocento: il governo Cileno, interessato ad acquisire l’area controllata dagli indigeni Mapuche, incentivò tutte le iniziative che ne favorissero la colonizzazione e, nell’ambito di tale progetto, il console cileno ad Amburgo, facendo leva sul diffuso malcontento della classe operaia tedesca ne esortò l’emigrazione verso il Cile con la promessa di un miglioramento della qualità della vita e del lavoro.  Successivamente, acquisita la regione al governo Cileno, fu la volta della borghesia cui furono assegnati vasti appezzamenti di terreno per la realizzazione di abitazioni, scuole ed infrastrutture.
A breve distanza da Puerto Varas si stende per numerosi ettari il Parco Nazionale Vicente Pérez Rosales, la riserva naturale più antica del Cile.  Lo sguardo si perde tra basse montagne innevate ed imponenti vulcani a forma di cono che si stagliano tra le nubi; tra di essi il Vulcano Osorno che completamente imbiancato troneggia sulla pianura d’erba chiara, la vegetazione bassa e rada, le distese di fango.  Nei mesi invernali, l’abbondanza di neve e le condizioni meteo avverse ostacolano l’ascesa alla vetta del vulcano, costringendo il più delle volte a percorsi che corrono lungo le sue pendici, lambite da un’ansa del lago Llanquihuè.  Il vulcano concede un’ulteriore meravigliosa vista a Los Saltos dove il fiume Petrouhè, scorrendo in particolari formazioni geologiche di origine vulcanica, si trasforma in potenti cascate d’acqua gorgogliante.
Il fascino delicato della Patagonia del Nord lascia spazio, viaggiando verso Sud, al fascino misterioso e prepotente delle sconfinate lande meridionali, dove la tundra ed il ghiaccio si estendono per centinaia di chilometri.
Sul Fiordo di Ultima Esperanza, Puerto Natales, un modesto villaggio di pescatori, costituisce il punto d’accesso ad alcuni parchi nazionali della Patagonia meridionale: il Bernando O’Higgins ed il Torres del Paine.
Una piccola imbarcazione conduce alla scoperta del Parco O’Higgins navigando attraverso il Fiordo; è l’alba e la barca incede faticosamente lungo la costa, frenata dal vento forte, tra isole di cormorani e piccole cascate, fino a raggiungere i ghiacciai Balmaceda e Serrano, due lingue di ghiaccio azzurro che si tuffano nel mare, circondate da basse montagne innevate. Il Parco, che include la maggior parte dei ghiacciai del campo di ghiaccio della Patagonia del Sud, conserva la sua natura selvaggia e incontaminata, grazie al territorio aspro e, in alcuni punti impenetrabile, che ne ha scoraggiato l’accesso al turismo di massa.
Da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattono sulla regione.  La maggior parte dei sentieri
del Parco del Torres del Paine è chiusa per eccessivo innevamento, così come i rifugi e gli accampamenti.  Soltanto il Rifugio Grande, sul Lago Peohè, è aperto ed offre un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto un letto, una doccia calda che dà su una finestra malandata da cui entrano spifferi di aria pungente, gas per cucinare ed un’unica stanza con una stufa a legna per asciugare gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia.  Nei mesi invernali anche il servizio di trasporto pubblico è interrotto: per raggiungere l’ingresso del Parco da Puerto Natales occorre affidarsi a bus privati impiegati per i pochi turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, diretti ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. In pochi vanno oltre. Un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, viene restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione. Per chilometri e chilometri incontri soltanto mandrie di cavalli selvaggi che corrono alle pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno.  Dove l’erba è più alta, vedi spuntare di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca.  I guanaco, cugini dei più noti lama, si muovono flemmaticamente nella tundra.  Alzando lo sguardo, in lontananza, alcuni grossi condor volano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
I pochi sentieri sgombri di neve si sono trasformati in ruscelli di acqua e fango.  La pioggia rende i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi.  Il vento soffia con raffiche violente e repentine che superano i cento chilometri l’ora; man mano che ti inoltri nella riserva diventano più forti, ma impari a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arriva, impietosa, sferzante. Lungo i tracciati che corrono bassi lungo il lago Peohè le raffiche spazzano forte l’acqua spingendola in onde nebulizzate verso la riva, che si insinuano come nebbia tra gli alberi spogli e neri in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale; minuscole trombe d’aria si formano rapide ed improvvise vorticando veloci al centro del lago per poi dissolversi.  Le sue acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scuriscono sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradano.

In quegli stessi fugaci momenti dalla foschia emergono maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popola di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffia via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazza via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegna i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambia, nella forza libera e dirompente della natura senti la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo.  E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, cogli l’essenza stessa della libertà.
In un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquisti la vista di laghi dalle sfumature e dalle forme variegate, come il Sarmiento, il Nordenskjold ed il Gray, che prende  il nome dalla scura tonalità dei suoi colori.  Costeggiandone le sponde si raggiunge l’omonimo ghiacciaio che si tuffa nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiarisce sino al cobalto.  Nell’acqua iceberg azzurri galleggiano l’uno accanto all’altro, sfiorati di tanto in tanto da un fioco raggio di sole.
Questo Parco, peraltro dichiarato dall’Unesco, negli anni settanta, riserva naturale della biosfera, esprime esattamente lo spirito selvaggio e profondamente spirituale della Patagonia, la potenza della natura, la fatica e l’entusiasmo della conquista.
Non può dirsi altrettanto, invece, di un parco forse anche più famoso del Torres del Paine: il Parco dei Los Glaciares situato nell’area argentina della Patagonia.
Il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette l’approccio tipicamente argentino alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza.  Il concetto stesso di parco nazionale si trasforma: non più strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa.  Una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate.  E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo.
Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei.
La Patagonia, tuttavia, non è solo il luogo della natura prepotente e selvaggia, delle scalate epiche o delle imprese affascinanti descritte nei romanzi. La Patagonia è anche un luogo in cui la storia ha lasciato un’impronta visibile di sofferenza, teatro di soprusi e identità culturali tradite.
Un territorio solitario, ai confini del mondo, ma provvisto di abbondanti risorse naturali e minerarie. E dunque un territorio appetibile, come dimostrano le grandi colonizzazioni spagnole e portoghesi del Cinquecento, di cui recano l’impronta principalmente i territori più meridionali e, in particolare, la Terra del Fuoco.  L’arida isola è attraversata da una strada sterrata che segue la costa bassa e frastagliata, battuta dal vento nell’orizzonte grigio illuminato da rari raggi di sole. Nulla intorno, soltanto guanaco adagiati nella tundra. Non è difficile immaginare come potesse essere il territorio ai tempi della colonizzazione da parte degli spagnoli che, attirati dai giacimenti auriferi della zona, sterminarono del tutto la popolazione indigena, di cui oggi resta traccia soltanto nelle vecchie canoe e negli altri reperti esposti nel museo di Porvenir.  Una popolazione ai confini del mondo che viveva di pesca e di caccia, sfidando e vincendo i gelidi inverni australi; uomini che hanno vinto la forza della natura ma che nulla hanno potuto contro la barbarie selvaggia dell’uomo “civilizzato” che spinto dalla brama di ricchezza e di conquista ha ritenuto che la via più semplice fosse rappresentata dalla morte e dalla distruzione. D’altronde è il concetto stesso di “colonizzazione” che contiene in sé l’errore - e l’orrore - perché presuppone la volontà di supremazia attraverso l’espropriazione di terre altrui e la cancellazione di identità culturali e talora, come in questo caso, di un intero popolo.  E così, non sai se considerare come un tributo o come un atto di ipocrisia quella statua così espressiva che, al centro di Porvenir, ritrae un indigeno che impugna un’arma, con lo sguardo rassegnato e carico di dolore di chi ha perduto la sua terra ed il suo futuro.
L’isola, più sviluppata nella parte argentina grazie ad una politica di agevolazioni fiscali e pressoché disabitata nell’area cilena, è collegata al continente dallo Stretto di Magellano.
Lo Stretto, che ha rivestito in passato un ruolo strategico sia dal punto di vista  commerciale sia dal punto di vista politico e militare, è oggi una rotta commerciale secondaria, il cui traffico è mantenuto vivo per lo più dal turismo e dalle attività di estrazione del petrolio in Terra del Fuoco. Attività quest’ultima che stride fortemente con la politica di protezione ambientale adottata nella zona dal Governo e che ha portato, tra l’altro, all’istituzione, nel 2003, di un’area marina protetta.
Navigando nelle acque scure e ventose dello Stretto si raggiunge, sulla terra ferma,  Punta Arenas, sulla cui costa stormi di albatros e cormorani si affollano numerosi. Punta Arenas è una delle poche cittadine sviluppate della Patagonia Meridionale, punto di partenza per le spedizioni scientifiche nell’Antartide e avamposto commerciale la cui fortuna è legata all’estrazione di petrolio e gas naturale nonché all’esportazione di lana e carne ovina.  C’è vita e benessere in questo luogo  dove la modernità cerca di farsi strada insinuandosi nelle pieghe più conservatrici della società.


Se ci si addentra nel cuore della città, tra le case basse e colorate, inaspettatamente ci si trova dinanzi ad un edificio verde con l’intonaco scrostato su cui campeggia una scritta rossa che a grandi caratteri recita: “aquì se torturò”.  La struttura, denominata “El Palacio de las Sonrisas”, è stato il principale centro di tortura del SIM, il servizio di intelligenza militare, nella regione dei Magallanes, durante la dittatura di Pinochet nel delirante tentativo di cancellare la sinistra marxista. La struttura, in cui furono torturate almeno millecinquecento persone, è diventato oggi un centro culturale che promuove la vita e i diritti umani.  


Viaggiare attraverso la Patagonia nei mesi invernali, senza il velo della farsa estiva abilmente cucito dall’industria turistica, ti permette di cogliere anche le contraddittorietà e le fragilità di questa regione.
Sebbene essa viva, complessivamente una fase di rinascita e stabilizzazione,  soffre ancora di gravi disparità sociali ed economiche e non riesce ad affrancarsi dal dualismo tra progresso e arretratezza.
Per un verso Il territorio ed il clima inospitale ne hanno reso difficile tanto l’urbanizzazione e la creazione di collegamenti tra le aree rurali e i pochi grandi centri abitati determinando isolamento e alimentando le difficoltà di una crescita omogenea sul piano sia sociale che economico. Per altro verso la politica molto spesso ha adottato strategie che hanno danneggiato le fasce più deboli e le aree più isolate, con il risultato che, ancora oggi, più di seicentomila persone costrette a condizioni di estrema povertà. E d’inverno, quando i turisti, la confusione ed il rumore scompaiono, tutto ciò diventa particolarmente evidente. Allontanandosi dai pochi centri ricchi, come Puerto Varas e Puerto Montt nel Nord o Punta Arenas nel Sud, resta infatti un senso di profonda desolazione. Restano i  piccoli villaggi del Nord che si riducono spesso a null’altro che un’insegna, un minimarket ed un piccolo gruppo di case modestissime, separate le une dalle altre soltanto da rustiche staccionate di legno.  Resta Puerto Natales nel Sud con le sue strade deserte e infangate, i marciapiedi sporchi e lastricati di ghiaccio, le baracche di lamiera, sterpaglie e cumuli di immondizia pronta per essere bruciata; restano  i ristoranti chiusi, gli autobus malandati, i servizi ridotti, i centri di informazione inefficienti, gli abitanti chiusi in loro stessi e vagamente assopiti.
Numerose sono le campagne che inneggiano ad una crescita della regione e, se l’auspicio è che ciò possa tradursi in risultati concreti, la speranza maggiore è che il progresso e la modernità non cancellino quell’autenticità e quella spiritualità che ancora si respira in Patagonia in questi giorni  d’inverno.

martedì 29 luglio 2014

Racconto (estratto): Dominique e la preparazione al grande salto

(All rights reserved)
(segue da "Dominque e la Magnolia")
L'aria era leggera, così lontana dalla calura estiva tipica del mese di luglio, e Dominique camminava piano tra i vecchi palazzi e quell'inconfondibile odore di antico che promanava dalle grate degli scantinati a bordo strada.
La sede della rivista non era lontana dal parco; durante il tragitto molte emozioni si affollavano nella sua mente : avrebbe lavorato per una delle riviste più note e più sognate del settore. Era davvero una grande occasione, si sentiva fiero e allo stesso tempo un pò turbato dall'opportunità che gli era stata data.
Questa occasione gli era piovuta quasi dal cielo, mai si sarebbe aspettato quella telefonata eppure era arrivata e adesso era lì, al cospetto di questo enorme palazzo pronto a ricevere le istruzioni per l'inizio di questa nuova avventura.
Saliva le scale un gradino dopo l'altro con il cuore che batteva forte.  All'esterno nessuno avrebbe colto la sua tensione nascosta dietro ad un sorriso e l'aria imperturbabile, ma Dominique sentiva che stava giocando una delle partite più significative della sua vita. Già era accaduto in altre due occasioni ed in entrambe aveva vinto.  Anche stavolta, era certo, ce l'avrebbe fatta. 
All'ingresso la segretaria del direttore lo attendeva. Era una graziosa e gentile ragazza dai capelli rossi che lo accompagnò in una luminosa sala riunioni. Il direttore arrivò dopo pochi minuti.  Guglielmo Della Rocca era un uomo alto, i capelli brizzolati e l'aria severa; entrò nella stanza salutando Dominique con un sorriso affabile e ringraziandolo per aver accettato l'invito. 
"Dominique, come saprai, noi siamo un'azienda grande, strutturata e abbiamo un target da rispettare.
Non possiamo permetterci di sbagliare. Mai. Con questo non voglio terrorizzarti, ma voglio che ti sia chiaro qual è il nostro modo di lavorare. Tu sei molto giovane e non hai ancora raggiunto quella maturità professionale che generalmente cerchiamo nei nostri collaboratori. Tuttavia sappiamo che sei un'ottima penna, un ragazzo serio e fattivo. E sappiamo anche che sei un abile alpinista e noi abbiamo bisogno non solo di un giornalista ma anche di qualcuno che sia in grado di scalare quella montagna. Abbiamo deciso di darti fiducia, perché ci fidiamo molto delle tue referenze. L'incarico che vogliamo affidarti è importante e ti consentirà, se riuscirai a portarlo a termine in maniera esemplare, di fare il salto di qualità che alla tua età si impone e che ti spianerà la strada. L'impresa, evidentemente, è onerosa e per certi aspetti è un salto nel buio per entrambi. Te la senti di far parte del nostro team?"  
Dominique ascoltava quelle parole così dure, dirette.  Il direttore era noto per il suo rigore e per il suo perfezionismo, ma ne apprezzava i modi decisi e trasparenti: non c'era nulla, infatti, che odiasse più dei giri di parole, delle mezze verità o peggio delle bugie che in tutti quegli anni aveva sentito. Della Rocca avrebbe potuto insegnargli tanto e Dominique non aveva alcuna intenzione di lasciarsi spaventare dall'impegno e dai rischi che accettare quella proposta avrebbe comportato e rispose con fermezza: "Direttore, la ringrazio davvero molto per la fiducia che mi sta accordando e credo di potermi assumere il rischio di questa collaborazione. E' vero: sono giovane e non ho ancora maturato il livello di esperienza per voi auspicabile, ma posso assicurarle che mi sono sempre impegnato a fondo in qualsiasi cosa abbia fatto; ho sempre amato scrivere più di qualunque altra cosa e ho sempre cercato di farlo nel migliore dei modi, con puntualità, precisione e motivazione. E intendo dare il meglio di me anche questa volta".
"Bene Dominique. Noi cerchiamo persone che riescano a portarsi oltre i propri limiti. Spero dunque non deluderai le nostre aspettative.  Per quanto riguarda i dettagli dell'impresa, ti anticipo che l'inizio della spedizione sul Fitz Roy è prevista per il mese di dicembre. Alessandro Molinari, l'alpinista che scalerà il ghiacciaio, come sai, ha deciso di farlo in free-solo e questo rende molto più affascinante, ma anche molto più pericolosa, l'avventura. Partirete per la Patagonia il primo dicembre e vi tratterrete lì fino a quando le condizioni meteo non consentiranno l'ascensione. Come puoi immaginare è possibile che ci vogliano settimane e settimane, quindi è necessario che tu mi garantisca la totalità del tuo tempo di qui ai prossimi mesi.  Faranno parte del gruppo Claudio Ancillotti, che collaborerà con te alla stesura dei testi, Albert Cortina, fotoreporter e Hans Mayer videomaker.  Ancillotti e Mayer seguiranno l'ascensione da un elicottero; Cortina scalerà con te e sarete accompagnati da una guida locale che abbiamo già scelto. E' stato organizzato tutto in maniera molto accurata. Per i dettagli, domani mattina ti contatterà Sara Padovani, la mia collaboratrice, che ti darà tutte le necessarie informazioni sia per quanto riguarda l'organizzazione della spedizione sia per quanto riguarda tutti i termini della nostra collaborazione. Benvenuto a bordo Dominique".
Dominique percorse il corridoio che portava all'uscita, dagli uffici provenivano voci e risa che si mescolavano al ticchettare veloce delle dita sulle tastiere. Arrivò nell'atrio e uscì.  Una pioggia leggera scendeva sulla città, l'aria era fresca e Dominique inspirò profondamente.
Non era ancora completamente consapevole di ciò che gli stava accadendo, ma sentiva che adesso i riflettori erano accesi su di lui: Della Rocca non scherzava ed anche Martin Giraud, il mentore di Dominique, uno dei primi direttori con cui aveva collaborato, avrebbe vigilato attentamente sul suo operato.
Dominique aveva sentito riaccendersi dentro di sé la scintilla della sfida, cui si sarebbe approcciato con la fierezza e l'umiltà che da sempre lo contraddistinguevano. Ancora una volta avrebbe spinto al massimo le proprie capacità di giornalista e di alpinista; ancora una volta avrebbe cercato di dare il meglio di sé e di superare i propri limiti.  "Cerchiamo persone che riescano a portarsi oltre i propri limiti": queste erano state le parole del direttore ed era proprio questo lo spirito che aveva consentito a Dominique di farsi strada nella vita personale e professionale; aveva sempre scelto la via più difficile per realizzare se stesso e non si era mai arreso davanti agli ostacoli.  Più ardua era la sfida più forte diventava la motivazione e più agevolmente riusciva a conquistare il risultato. Sentii una gran forza ed una grande energia dentro di sé. Finalmente le sue più grandi passioni, il giornalismo e l'alpinismo, si coniugavano in un'esperienza che l'avrebbe portato a superare se stesso.  Le aspettative di tutti erano molto elevate, ma era lui che stava puntando tutto su quella carta e non poteva e non voleva perdere.  Nei mesi che lo separavano dalla spedizione si sarebbe allenato duramente e durante l'estate avrebbe fatto un viaggio in Patagonia per iniziare a respirarne l'aria e le sensazioni, un viaggio propedeutico che avrebbe reso più ricco e avvincente il suo reportage.
Guardò l'orologio, erano le sei.  Doveva affrettarsi, il volo per Parigi sarebbe partito dopo un'ora.
Chiamò un taxi e corse in aeroporto.
Mentre l'aereo si staccava da terra, ripensò a quella giornata piena di emozioni, al mattino di riflessione e di quiete al parco che gli aveva restituito serenità ed al pomeriggio che gli aveva dato una gran carica riaccendendo la fiamma della competizione e della battaglia. Adesso era sul trampolino ed era finalmente pronto al grande salto. Chiuse gli occhi e sorridendo si lasciò cullare dall'aereo che, volteggiando tra le nuvole, conquistava la propria rotta.

venerdì 25 luglio 2014

Fiaba:"Giulietta e l'incontro con lo squalo vampiro".

(All rights reserved)
Questa è la storia di Giulietta e del suo incontro con Baz, lo squalo vampiro!
Giulietta ha cinque anni, tanti riccioletti, occhi chiari ridenti e l'aria simpatica e furbetta!
Ama trascorrere i suoi pomeriggi immersa nella sua stanza tra fogli e matite colorate inventando storie e immaginando mille avventure.
Oggi Giulietta è particolarmente contenta.
E' una bella giornata di primavera e, all'uscita dall'asilo, ha fatto una lunga passeggiata al parco con la nonna. Insieme hanno ricordato i nomi dei fiori e dato da mangiare alle paperelle nel laghetto.
E poi, immancabile, è arrivato anche l'appuntamento con l'altalena. Giulietta adora andare sull'altalena!
Ad ogni spinta le sembra di avvicinarsi sempre più a quelle nuvolette bianche e soffici come ovatta; che bello sarebbe poterle toccare, rotolarcisi sopra e saltellare dall'una all'altra!
Un gioco dopo l'altro, giunge l'ora della merenda e Giulietta e la nonna rientrano a casa.
La nonna ha preparato una deliziosa crema alla frutta con fragranti biscottini che Giulietta mangia di gusto, seduta in cucina, mentre un delicato profumo di fiori entra dalla grande vetrata aperta.
Terminata la merenda e dato un bacio alla nonna, Giulietta si dirige saltellando nella sua cameretta dove il suo ultimo disegno attende di essere completato.
E così mentre Giulietta è intenta nella sua opera, con le dita incollate e i brillantini cosparsi sul suo tavolino, sente un rumore venire dal terrazzo.
Apre la grande vetrata, si guarda attorno e vede spuntare tra i rami dell'acero rosso una pinna...
"Una pinna?" si chiede con gli occhi pieni di stupore!
Eh sì, proprio una pinna, grigia e lucente!
Giulietta sposta le foglie ed ecco comparire anche il proprietario della piccola pinna: uno squaletto dal mantellino rosso, l'aria un pò goffa e intimidita.
"E tu chi sei?" esclama Giulietta, tra l'incerto e il divertito.
"Ciao", risponde un pò impaurito lo squalo, "Io sono Baz, lo squalo vampiro, e tu chi sei?"
"Io mi chiamo Giulietta e questo è il mio terrazzo. Cosa ci fai nascosto dietro l'albero della mia mamma? Non dovresti essere a nuotare nell'oceano?"
"Viaggiavo con il mio elicotterino ma son caduto! Non sapevo dove fossi e mi sono nascosto. Non vorrai mica mangiarmi adesso?"
"Mangiarti? Io non mangio gli squali!" risponde la bimba ridendo.
"Meno male!" esclama lo squalo vampiro. E così, rassicurato, saltellando sulla coda si avvicina a Giulietta e, porgendole la pinna, con un inchino dice "felice di conoscerti Giulietta e scusa se il mio elicotterino è finito tra le piante della tua mamma".
"Oh, felice di conoscere te squaletto" risponde Giulietta. "Adesso però dobbiamo liberare il tuo elicotterino prima che torni la mia mamma".
Giulietta e Baz, tira di qua e tira di là, riescono a liberare l'elicotterino dai gerani e lo posizionano accanto alla vetrata.  L'elicotterino è intero e, per fortuna, è in grado di volare ancora!
Giulietta e lo squalo vampiro si concedono un attimo di riposo e Giulietta domanda:
"Squaletto, da dove arrivi con il tuo elicotterino?"
"Vengo dal Pianeta Papero, un pianeta lontano miliardi di anni luce dalla Terra".
"Ma allora sei in viaggio da miliardi di anni?" risponde Giulietta un pò perplessa.
"No, perché accanto alla Luna c'è una piccola porta, che voi non riuscite a vedere; con un telecomando la porta si apre e si entra in una galleria che veloce porta sul mio pianeta."
"Che bello, squaletto! Raccontami com'è fatto il tuo pianeta. Ci sono i fiori e le piante? E le altalene? E, dimmi, tutti gli animali parlano?" Giulietta è davvero curiosa e vorrebbe proprio saper tutto dello squalo vampiro e del suo pianetino.
"Il mio pianeta è un pò più piccolo della Terra e ha due grandi continenti. Un continente dove tutto, le pianure e le montagna altissime, sono completamente ghiacciate ed è abitato solo da grandi orsi bianchi e pinguini con la pancia blu. Il mare è freddissimo e vi nuotano solo le temerarie foche viola.
Lì non crescono alberi, ma solo grandi fiori bianchi, azzurri e lilla che cantano sulle note del vento.
Tutti gli animali si nutrono di piccoli frutti gialli che crescono sui pendii assolati delle montagne.
E poi c'è un altro continente, circondato da un mare caldo color smeraldo dove nuotano milioni di pesciolini dai mille colori, che hanno costruito le loro case tra i coralli rosa e le rocce chiare.  Il mare bagna spiagge grandissime che si estendono fino a diventare deserti di sabbia rossa.
Più all'interno, in questo continente, ci sono grandi colline verdi, boschi e torrenti di acqua fresca.
Questo continente è abitato da papere azzurre che governano l'intero pianeta e poi da mucche, uccellini e farfalle multicolori. Ci sono milioni di alberi e fiori molto diversi da quelli che avete sulla Terra, più grandi, più colorati e, poi, ognuno ha una caratteristica particolare.  Ai fiori, come ti dicevo, piace cantare, mentre gli alberi amano fare lunghe passeggiate, attraversando il deserto, per vedere il mare".
"Squaletto, ma anche voi avete il Sole?"
"Abbiamo un grande Sole arancione, molto simile al vostro; però se guardi bene il nostro sole è speciale, perché ha gli occhi, il naso e un gran sorriso. Solo quando è arrabbiato scompare dietro alle nuvole e lascia che scenda giù la pioggia. E quando questo accade gli alberi, le piante e i fiori si rifugiano nelle grotte, non crescono più i frutti del mare e della terra e l'acqua dei torrenti diventa amara".
"E si arrabbia spesso il vostro Sole?" chiede Giulietta.
"No, soltanto quando gli abitanti del pianeta litigano tra loro. E' per questo che non ci sono mai guerre sul pianeta Papero; gli abitanti hanno imparato a vivere in armonia tra loro per godere dei benefici del Sole ed essere felici".
Giulietta fa ancora tante domande allo squalo vampiro e scopre che quest'ultimo fa parte di una nobile famiglia che abita su un'isoletta del continente dal mare smeraldo.  Indossa una mantellina rossa in segno della sua regalità e si nutre solo di succo di pomodoro.
Ormai è sera e la nonna chiama Giulietta per il bagnetto e la cena.
"Adesso devo andare Baz. Ma tornerai a trovarmi per raccontarmi ancora del tuo pianeta?"
"Certo Giulietta!"
E così con la promessa di rivedersi ancora, Giulietta e lo squalo vampiro si salutano.
Lo squalo parte a bordo del suo elicotterino rosa mentre Giulietta lo saluta con la manina dal suo terrazzo.
Il suono del campanello della porta di casa annuncia finalmente l'arrivo di mamma e papà.
Giulietta corre loro incontro, felice di riabbracciarli! Come ogni sera, dopo cena, seduti sul divano, tra tante coccole, giocheranno e si racconteranno le avventure della giornata!






mercoledì 16 luglio 2014

Racconto (estratto): Dominique e la magnolia

(All rights reserved)
Era disteso sul prato all'ombra dei platani, ascoltando il dolce fluire delle acque del fiume, mentre il profumo dell'erba fresca del mattino si mescolava alle note armoniose dei fiori di gelsomino del vicino bistrot.
Alle sue orecchie arrivavano le incitazioni degli allenatori della scuola di canottaggio, gli strilletti dei bimbi che con i nonni attraversavano il parco e, soltanto in lontananza, il rumore di sottofondo della città.
Dominique amava quella città, amava la dimensione di quiete e la sensazione di pace che ogni volta che vi si recava lo pervadeva. Aveva vissuto pochi mesi tra i palazzi antichi, le piazze e le colline di quel salotto un pò nostalgico e dalla forte ispirazione francese, eppure quel periodo aveva lasciato dentro di lui un'impronta profonda. E adesso, come altre volte nei mesi precedenti, aveva accolto con favore questa breve trasferta, lontana dai cieli un pò grigi e dal traffico impazzito di Parigi.
Una notte ed un giorno da spendere, finalmente, lontano dalla routine.  Era un pò affannato in quel periodo per i delicati impegni professionali e per le inaspettate prove che la vita gli aveva posto.
Ma la sorte aveva voluto che in quei giorni una nota rivista avesse deciso di proporgli un nuovo reportage.
L'idea lo entusiasmava, gli aveva dato nuova adrenalina dopo lunghi mesi in cui i suoi articoli erano stati incentrati prevalentemente sulla posizione assunta dagli Stati e dai cittadini nei confronti dell'Unione Europea. Un argomento certamente interessante che aveva approfondito con numerosi viaggi ed interviste, sicuramente stimolanti, ma che lasciava sempre in lui una sensazione di disagio, di disappunto, se non, in alcuni casi, addirittura di fastidiosa impotenza. Non gli piaceva la gestione delle politiche nazionali ma ancor più si rammaricava della scarsa incisività del ruolo degli organismi europei, che non riuscivano ad espletare quella funzione di garanzia e di effettivo coordinamento che sarebbe loro spettata.
Ma adesso una nuova sfida si affacciava nella sua vita professionale: un reportage sull'ascensione in free-solo di una montagna fino a quel momento considerata inaccessibile in quella modalità.
L'altro emisfero e una nuova avventura lo attendevano.
Avrebbe raccontato i momenti precedenti l'ascensione, quella sensazione mista di impazienza, paura, invincibilità...e poi avrebbe raccolto il racconto delle emozioni degli alpinisti durante la salita e avrebbe raccontato le sue stesse emozioni nello scalare quel ghiacciaio, la trepidante attesa, il timore sui passaggi più ardui, l'esaltazione e la gioia al raggiungimento della vetta.
Il suo reportage avrebbe fatto il giro del mondo e, da appassionato di alpinismo, il suo unico desiderio era quello di riuscire a trasmettere ai lettori le sensazioni che solo la montagna è in grado di suscitare.  Perché la montagna per lui non era solo passeggiate tra i boschi, polenta nei rifugi e calde serate davanti al camino...la montagna era passione, sacrificio, impegno e rispetto. E ancora una volta aveva la possibilità di essere testimone e, in parte, protagonista di tutto ciò.
Nel pomeriggio l'attendeva una riunione con il direttore della rivista per fissare i dettagli della collaborazione e della spedizione.
Era impaziente e carico di energia, ma allo stesso tempo desiderava godersi il senso di pace di quelle ore, aveva voglia di fermarsi un momento, sentir fluire le sensazioni dei giorni precedenti e lasciar scivolar via da sé ciò che l'aveva turbato.
Mentre seguiva il filo dei suoi pensieri un fiore di magnolia attirò la sua attenzione. Quel fiore gli era sempre piaciuto, non solo per la delicatezza e la purezza dei suoi colori e dei suoi petali, ma anche per la sua profonda capacità di adattamento che gli  aveva permesso, nei secoli, di svilupparsi e crescere nei territori più disparati, dall'Europa, al Nord America all'Asia; per la sua forza che gli consentiva di resistere, nonostante l'apparente delicatezza, anche negli ambienti più ostili come l'Himalaya; e per l'essere simbolo, nel linguaggio dei fiori, di valori come la dignità e la perseveranza.
Quel fiore, sprigionando il suo profumo e imponendosi con il bianco dei suoi petali tra le foglie verdi di quell'albero così imponente, lo aveva riscosso rammentandogli al contempo come anche un momento dalle opache sfumature di grigio possa tornare a colorarsi di tinte calde, vitali, dolci e allo stesso tempo cariche di passione.
Quella mattina di libertà capitata per caso aveva avuto su di lui un effetto rigenerante.
Come l'ancestrale ed inconscio presagio di morte dinanzi ad un eclissi si dilegua appena il sole riappare in tutto il suo colore, così nell'aria leggera e profumata del mattino, l'eco di quelle sensazioni che l'avevano turbato lo abbandonava senza lasciare alcuna traccia nella sua vita.
Dominique si era reso conto, ancora una volta, di come niente e nessuno avrebbe potuto piegare la sua vita e le sue certezze, di come niente e nessuno avrebbe potuto sottrargli ciò in cui profondamente credeva. Perché nessuno poteva neanche immaginare quale fosse la forza del suo essere e di ciò che aveva costruito.
Gli tornò alla mente una frase che aveva sentito durante un viaggio in Arabia alcuni anni prima e che non avrebbe più scordato: "non può un vento caldo, che si insinua tra le oasi, cancellare le dune del deserto perché esse si trasformeranno sempre, ma nulla potrà mai distruggerle".
Il suo sguardo si riempii di nuovo delle note colorate dei suoi pensieri e delle sue emozioni, nelle sue vene ricominciò a scorrere impetuosa la vita e nel cuore riecheggiarono i suoi battiti, forti e vigorosi.
E con l'invincibile fierezza di chi ha la consapevolezza di aver vinto si issò in piedi e, raccolto il suo zaino, con i riccioli che ricadevano sulla fronte corse incontro alla nuova meravigliosa avventura che di lì a poco avrebbe vissuto.


lunedì 30 giugno 2014

Un ristretto poco macchiato

Questa è la ministoriella che ho scritto per il contest " Storie di caffè ".
La parte in corsivo è quella proposta dagli organizzatori del contest come punto di partenza per il piccolo racconto di 600 caratteri.
E' possibile votarla andando sul Sito. Se la mia storiella dovesse piacere sarà pubblicata in un piccolo libro edito da Mondadori.
"Mi ero da poco trasferito nella nuova casa, e una mattina scesi per andare al bar e prendere un bel caffè. C'era un po' di gente, così aspettai qualche secondo. Appena mi sembrò che il barista fosse libero mi feci avanti… e chiesi un caffè ristretto poco macchiato. Il barista mi guardò perplesso ma io, orfana della mia città e del mio caffè, unico e inimitabile, insistei. Per mesi bevvi caffè ristretti poco macchiati certa di tutelare il mio palato rattristato quando, un bel giorno, per un attimo di distrazione, chiesi un caffè. Un caffè e basta. Quel giorno scoprii che anche lontano da casa un caffè poteva essere buono e che spesso per pregiudizio ci priviamo del piacere di gustare una nuova vita e i suoi sapori. Aprii dunque il mio cuore e le mie papille a questa terra e fu così che ebbe inizio la mia felicità."

lunedì 16 giugno 2014

Giugno

Finalmente sta arrivando!
L'estate, la stagione dei ghiacciai, delle camminate infinite tra paesaggi incontaminati in cui ti faranno compagnia solo il riflesso del sole sulle cime, i prati, l'aria leggera.
Ancora chiusa tra le pareti dello studio, la mente vola via lontano sognando nuove avventure.
Scorrono veloci i giorni di Giugno!
Il mese dell'organizzazione, delle guide, dei quaderni di appunti, delle serate trascorse a studiare percorsi, itinerari, a ricercare voli, bus e alloggi.
Il mese in cui fai il check dell'attrezzatura in garage tra polvere e scatoloni, cercando quella vite da ghiaccio misteriosamente scomparsa o la frontale intrappolata tra corde e scarponi.
Il mese dei sogni, dell'immaginazione.
La promessa di emozioni intense a contatto con la natura, di incontri con viaggiatori eccentrici, come i vecchietti con la maggiolina che attraversano l'oceano a bordo di un cargo per raggiungere l'altro emisfero; o l'alpinista solitario che ha toccato le cime più alte del mondo.
Viaggiare non solo per andare alla scoperta di luoghi e culture lontane, profumi e sapori sconosciuti,
ma viaggiare anche per scoprire il mondo attraverso la percezione degli altri viaggiatori, attraverso i loro occhi, i loro racconti e le loro esperienze.
Raccogliere in un'espressione o in una frase una piccola goccia di vita, le impressioni e le emozioni che un paesaggio può generare o gli insegnamenti e i nuovi punti di vista che possono derivare da un incontro.
Quando viaggio mi piace fermarmi in un luogo quel tanto che occorre per sentirmene parte.
A due passi da casa o dall'altra parte del mondo, accanto al mare o al cospetto di un'immensa montagna o in un piccolo villaggio, poco importa. Ciò che conta è fermarsi.
Lasciarsi attraversare dai colori, i suoni, i profumi; percepire l'energia di quel luogo e di quel momento; ascoltare l'eco che hanno dentro di te.
Questo per me significa davvero viaggiare, creare una prospettiva ed un'esperienza di viaggio davvero unica e personale.
Un'esperienza che in questo modo, sono certa, resterà sempre parte di me e del mio piccolo bagaglio di vita.