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(...) Mathis era riuscito a realizzare sia pure con gran fatica il desiderio di diventare archeologo e da poco aveva avuto un importante assegno di ricerca alla Sorbona.
Lo vidi arrivare affannato e di corsa come sempre.
“Ciao Dominique! Scusa il ritardo, ma sono cominciate le sessioni estive e il dipartimento è in delirio. Il professore è furibondo perché secondo lui il livello di preparazione dei ragazzi è bassissimo e sta bocciando davvero tanto. Il risultato è che ci stiamo trovando file di studenti disperati all’orario di ricevimento.”
“Ha ragione?” chiesi.
“Bah! Il livello di preparazione negli anni anziché aumentare è certamente diminuito. Non so se è colpa nostra; se, distratti da mille impegni, non riusciamo a dar loro sufficiente supporto o se non riusciamo a trasmettere la passione per queste materie. In generale, però, vedo che raramente c’è reale voglia di approfondire, di acquisire gli strumenti necessari per diventare un vero archeologo. Vedo superficialità e soprattutto poca voglia di sacrificarsi per conseguire gli obiettivi. Eppure quei sacrifici dovrebbero essere sorretti dalla passione per l’archeologia. Diversamente non avrebbe neanche senso iscriversi ad una facoltà come questa che di sacrifici ne richiede tanti sotto ogni aspetto. Tu l’hai visto, Dominique, quanto mi è costato e quanto mi costa tutt’ora fare questo lavoro, ma ciononostante sono sempre andato avanti per la mia strada facendo del mio meglio”.
Lo guardavo mentre parlava, i capelli scompigliati e l’aria stanca e accaldata, e pensavo al senso delle sue parole.
Sorrisi immaginandomelo sotto il sole cocente dell’Egitto durante gli anni della gavetta in cui, insieme ad altri studenti, armato di vanghe e scarponi, veniva impiegato per portare avanti nuovi scavi. Quello stesso ragazzo che poteva sopportare i trek e le scalate nel gelo e nella neve, non poteva tollerare minimamente il caldo, come testimoniava la sua aria stravolta in quella calda giornata di luglio. Ma sapevo che non erano, certamente, solo quelli i sacrifici cui faceva riferimento.
Per riuscire a guadagnarsi un posto all’Università, in un ambiente chiuso come quello degli archeologi, Mathis aveva dovuto fare immensi sacrifici; aveva dovuto studiare e lavorare duro più di chiunque altro; aveva dovuto tollerare soprusi e angherie di ogni genere. Il professore, con cui aveva collaborato sin dall’inizio e che ne apprezzava moltissimo le qualità intellettuali e la passione, non era riuscito a proteggerlo da ingiustizie che ne avevano rallentato la carriera; soltanto con il mutare di alcuni equilibri alla Sorbona, i suoi sforzi erano stati finalmente premiati consentendogli di ottenere i meritati riconoscimenti.
Ma sapevo anche che, in parte, quei riconoscimenti non avrebbero potuto ripagare Mathis di qualcosa che nessuno gli avrebbe più restituito: durante il dottorato aveva conosciuto Ariel, una ragazza parigina che studiava arte contemporanea; insieme erano diventati una coppia unita e affiatata, a dispetto dei lunghi periodi che erano costretti a trascorrere lontani ogni volta che Mathis veniva inviato dall’Università in nuovi luoghi di scavo.
Un anno, però, fu chiamato a partecipare a dei lavori in Africa per il recupero di reperti probabilmente di epoca preistorica, rinvenuti da un esploratore del National Geographic in un'area giudicata sino a quel momento inaccessibile.
Per Mathis era l'occasione della vita; avrebbe potuto sovrintendere uno scavo la cui importanza era considerata eccezionale, anche in considerazione del luogo del ritrovamento che avrebbe potuto aggiungere nuovi tasselli alla ricostruzione delle migrazioni preistoriche attraverso l’attuale continente africano.
L’apertura del nuovo cantiere era stata particolarmente complessa per l’inaccessibilità del posto e per la difficoltà delle comunicazioni.
Per tre mesi Mathis era rimasto quasi del tutto isolato dal mondo; riusciva a parlare con Ariel soltanto una volta a settimana e non senza difficoltà, dopo alcune ore di cammino per raggiungere il villaggio più vicino. All'improvviso, però, Mathis aveva cominciato a sentirla strana, il tono della sua voce tradiva un’agitazione e una tristezza che non le appartenevano, ma ad ogni domanda Ariel era evasiva. Mathis era preoccupato, non sapeva cosa pensare, temeva che la distanza la stesse allontanando; non sapeva che qualcosa di più terribile stava accadendo e che la situazione sarebbe improvvisamente precipitata.
Un giorno, arrivato al villaggio per la comunicazione settimanale, trovò un messaggio dei genitori di Ariel in cui gli chiedevano di contattarli urgentemente perché la ragazza stava male e lui doveva rientrare il prima possibile. Mathis fu preso dal panico; era passata quasi una settimana da quel messaggio. Aveva il cuore impazzito e con le mani tremanti compose il numero scritto sul biglietto sbagliando più volte. Infine la voce della sorella di Ariel gli rispose dall’altro capo del telefono: “Cloe, sono Mathis, ho letto il messaggio, cosa sta succedendo?”.
Cloe rispose con un filo di voce: “Mathis…Ariel…è morta…”.
Mathis rimase come paralizzato, la voce si era strozzata in gola.
Cloe piangeva “Mathis è successo all’improvviso. Dopo un paio di settimane dalla tua partenza è svenuta, i colleghi l’hanno portata in ospedale e dagli accertamenti è emerso che aveva una gravissima forma di neoplasia del sangue. Ma non pensavamo che sarebbe successo tutto così velocemente. Anche Ariel non lo pensava, per questo non ti ha detto niente. Non voleva che ti preoccupassi, non voleva che tornassi per lei. Continuava a ripetere che per te era un’occasione troppo importante e che se fossi tornato la tua carriera avrebbe potuto essere compromessa. Era convinta di riuscire a salutarti, ma le sue condizioni sono peggiorate all’improvviso. Abbiamo provato a contattarti, ma non ci siamo riusciti. Mathis sei stato il suo pensiero, fino all’ultimo momento…”.
Ma Mathis non ascoltava più, reso sordo e inerme da un dolore improvviso e insopportabile.
Una rabbia enorme lo assalì, maledisse quel luogo e quel lavoro che l’avevano portato lontano quando più di qualsiasi altro momento avrebbe dovuto essere a Parigi; maledisse se stesso per non aver capito cosa stesse succedendo ad Ariel.
Mancavano due settimane al rientro previsto in Francia, solo due settimane. Perché Ariel non aveva resistito?
Non vedendolo tornare, i suoi colleghi si allarmarono ed un gruppo si mise in cammino per cercarlo. Arrivarono al villaggio che il sole era tramontato e lo trovarono ancora seduto accanto al ricevitorie del telefono con il volto stravolto. A stento riuscì a raccontare l’accaduto. Il gruppo di ragazzi prese in mano la situazione; contattarono il professore che dirigeva i lavori ed organizzarono il rimpatrio immediato di Mathis.
Il rientro a Parigi fu terribile così come lo furono i mesi successivi.
Mathis sembrava aver perso del tutto la sua vitalità ed anche l’archeologia era diventata uno spettro nero cui sfuggire piuttosto che la passione di una vita da cui trarre forza ed energia.
Ma poco a poco reagì e si rese conto che non avrebbe potuto gettare nel nulla il sacrificio che Ariel aveva fatto: avrebbe ripreso il suo percorso e lo avrebbe fatto con la dedizione e l’impegno di un tempo, l’avrebbe fatto per Ariel.
Mentre parlava, adesso, era sereno, era tornato il ragazzo di un tempo; certamente con una ferita profonda la cui cicatrice negli anni avrebbe continuato a provocargli dolore, ma stava andando avanti, aveva ripreso in mano la sua vita e la stava vivendo nel modo migliore che poteva riuscirgli. (...)
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