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Patagonia Meridionale. Mentre l’aereo atterrava sotto una pioggia fitta Giulia ripensava alla prima volta che era arrivata a Punta Arenas e alle sensazioni che avevano accompagnato quel viaggio.
Un devastante incendio aveva distrutto un’estesa area del parco nazionale del Torres del Paine e, quando, dopo alcune settimane, furono sedate le fiamme, un team internazionale di studiosi accorse sul posto per una prima stima dei danni.
Giulia, ricercatrice di biologia ambientale, fu tra i primi ad arrivare nell’area; quando la piccola imbarcazione che, dalla cinta più esterna del Parco, attraversando il Lago Peohè, l’aveva condotta al Rifugio Grande, una delle zone più colpite dall’incendio, ciò che vide fu uno spettacolo che la lasciò sgomenta.
Come studiosa, come alpinista, come essere umano.
Aveva visto le immagini del Parco prima che le fiamme lo divorassero e la bellezza di quei paesaggi l’aveva colpita profondamente: i grandi laghi dall’acqua turchese, le torri di granito, le foreste dense di vegetazione erano un palpitare di vita.
Nulla restava ormai, se non un debole battito di quel cuore pulsante nelle lande desolate della Patagonia Meridionale. Davanti a sé Giulia vide un paesaggio di morte in cui il verde delle foreste e dei prati ed i colori dei fiori avevano ceduto il passo a pendii anneriti dalle fiamme, prati coperti di cenere, tronchi nudi e scuri che, come scheletri in una macabra danza, si piegavano e scricchiolavano sotto la forza imperiosa del vento.
Ed era rabbia, tristezza, impotenza quella che Giulia leggeva negli occhi dei ranger, dei funzionari della regione, degli abitanti; persone che vivevano in quei luoghi e che da quei luoghi traevano anche il proprio benessere ed il proprio sostentamento.
Ma adesso tutto era distrutto. Per negligenza, per superficialità. Per un fuoco acceso in una zona non autorizzata.
Per circa un mese Giulia aveva camminato, fotografato, preso appunti, fatto calcoli; si era confrontata con gli altri studiosi; insieme avevano steso stime e fatto previsioni per il futuro. Un mese intenso, faticoso e doloroso per la vista e per il cuore, perché anche la scienza davanti alla morte e alla distruzione non poteva rimanere fredda ed impassibile.
Il team di scienziati accertò che furono distrutti circa diciassettemila ettari della riserva con danni enormi alla flora e alla fauna: stimarono che i primi significativi risultati di un’attività di recupero dell’area, pur intervenendo immediatamente, sarebbero stati visibili non prima di quindici anni.
Giulia rientrò in Italia con un profondo senso di amarezza; si occupava da dieci anni di disastri ambientali, ma ogni volta non riusciva a trovare una giustificazione, un’attenuante alla superficialità umana.
Un luogo con una varietà così significativa di specie vegetali e animali, tanto da essere proclamato riserva dello biosfera negli anni settanta, messo in ginocchio da un atto di noncuranza. Il colpevole individuato e processato aveva ammesso le proprie responsabilità; ma non poté qualche giorno trascorso in carcere o il pagamento di multa rimediare ai danni cagionati.
Nei tre anni successivi il team di scienziati di cui Giulia faceva parte fu coinvolto in ulteriori e più approfonditi studi, fu steso un piano di recupero dell’ecosistema boschivo e lacustre e furono prontamente avviate tutte le attività necessarie per metterlo in pratica.
Dopo i sopralluoghi compiuti nel corso del primo anno e mezzo successivo all’evento, Giulia non era più tornata in Patagonia; aveva svolto i propri studi alla scrivania nel confortevole dipartimento della sua università. Le immagini di quel disastro erano dunque lontane dagli occhi ma difficilmente Giulia avrebbe dimenticato il senso di sconfitta e di impotenza che aveva provato davanti a quello scempio.
Erano passati tre anni dall’incendio. Una mattina di luglio, terminato il ricevimento di alcuni studenti in apprensione per gli esami della sessione estiva, Giulia aveva ricevuto una mail recante un aggiornamento sugli ultimi risultati dell’attività di ripristino del Parco e, con sollievo, aveva appreso che, nonostante le condizioni climatiche estreme che rendevano assai più difficile l’attecchire di piante giovani e delicate, la natura stava riuscendo a riprender possesso dei propri luoghi riaffermando la propria forza e dignità.
Di lì a due settimane avrebbe avuto inizio il suo periodo di ferie e non ebbe esitazione alcuna: era arrivato il momento di tornare nella regione dei Magallanes; non solo come scienziata, ma come essere umano; e nulla avrebbe avuto in contrario Dominique, suo compagno e fotogiornalista, che senza batter ciglio l’avrebbe accompagnata nel viaggio.
Le due settimane erano volate nei preparativi della nuova avventura che li avrebbe portati a sfidare l’inverno australe. Avevano contattato il Conaf, l’ente d’amministrazione del Parco per conoscere lo stato dei sentieri: la maggior parte di essi era chiusa ai turisti per eccessivo innevamento, ma con un pass speciale concesso per scopi scientifici, avrebbero potuto accedere anche alle aree più remote.
L’aero toccò finalmente terra, dopo un turbolento volo durato quattordici ore.
Un van privato li condusse da Punta Arenas all’ingresso della riserva; Giulia sentiva il cuore batterle forte: sapeva che per quanto il recupero dell’area stesse avvenendo in maniera piuttosto veloce, avrebbe trovato ancora una realtà fortemente segnata dall’incendio.
Quando scesero dal bus una pioggia sferzante colpì i loro volti: da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattevano sulla regione. Indossarono i pantaloni e le giacche antipioggia, coprirono gli enormi zaini con i teli impermeabili e si avviarono lungo il sentiero che dall’amministrazione del parco li avrebbe portati al Rifugio Grande, sul Lago Peohè, una delle aree più colpite dalle fiamme; di lì avrebbero verificato lo stato dei luoghi fino alla Valle Francese e, successivamente, avrebbero raggiunto l’area del Lago Grey, anch’essa gravemente danneggiata dal fuoco.
Nelle cinque ore di cammino che impiegarono per raggiungere la prima tappa, non incontrarono nessuno; i rari turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, si fermavano ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. Nei mesi invernali in pochi andavano oltre: un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, veniva restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione.
Nella cinta più esterna della riserva, Giulia e Dominique incontrarono soltanto mandrie di cavalli selvaggi che correvano sotto le pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno; dove l’erba era più alta, spuntava di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca; i guanaco si muovevano flemmaticamente nella tundra; alcuni grossi condor volavano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
In quell’area nulla preannunciava lo spettacolo terribile che avrebbero incontrato più avanti, oltre la prima cintura di basse colline che li separava dal Lago Peohè.
Addentrandosi nella cinta più interna della riserva, i pochi sentieri sgombri di neve si erano trasformati in ruscelli di acqua e fango. La pioggia aveva reso i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi. Il vento soffiava con raffiche violente e repentine che superavano i cento chilometri l’ora.
Man mano che procedevano, la vegetazione verde e rigogliosa lasciava spazio a pochi arbusti secchi, alberi senza fronde dai tronchi squarciati. E non era il passeggero effetto dell’inverno; quegli alberi non sarebbero rifioriti in primavera. La desolazione che lentamente si impadroniva del paesaggio era la traccia evidente e dolorosa del percorso che le fiamme avevano compiuto nel divorare il parco.
Dominique e Giulia raggiunsero il Rifugio Grande quando il sole era ormai quasi tramontato; giunti all’interno lasciarono gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia nell’unica stanza dotata di stufa a legna. Quel rifugio era la sola struttura aperta ed offriva unicamente un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto gas per cucinare, un letto ed una doccia calda che dava su una finestra malandata da cui entravano spifferi di aria gelida.
Nel rifugio trovarono, oltre ad un impiegato della struttura e ad un ranger, soltanto un gruppo di simpatici ragazzi americani, accompagnati dalla loro guida.
Dopo un frugale pasto, Giulia e Dominique si intrattennero nella sala riscaldata, alla luce del fuoco che ardeva nella stufa.
Mentre chiacchieravano con i ragazzi americani, fermi lì da due giorni a causa del maltempo, entrò il ranger, un uomo di mezza età, il viso solcato da profonde rughe, segno degli anni, del sole e del freddo che, sedutosi pesantemente su una vecchia panca di legno chiaro, rincuorò il gruppo su un probabile miglioramento, il giorno successivo, delle condizioni meteo.
I ragazzi americani sarebbero potuti rientrare in sicurezza all’amministrazione, dove li avrebbe attesi un van per Puerto Natales, il centro abitato più vicino, mentre Dominique e Giulia avrebbero potuto compiere con minor fatica il loro percorso.
Il ranger, che era stato informato del pass speciale ottenuto da questi ultimi, chiese loro cosa li avesse portati in Patagonia. Giulia raccontò della sua esperienza con il team di studiosi ai tempi dell’incendio e del desiderio di vedere dal vivo quali progressi vi fossero stati nel recupero ambientale.
Il ranger, nel rammentare i terribili giorni dell’incendio, non poté trattenere la propria rabbia e il proprio dispiacere: “non dimenticherò mai la sensazione di sconfitta nel vedere ettari ed ettari di parco andare a fuoco, l’immagine delle fiamme che veloci divoravano gli alberi e le piante, gli animali che fuggivano terrorizzati. Le ore passavano e i focolai aumentavano. Ci sentivamo impotenti. In quei giorni il vento era particolarmente forte e i vigili del fuoco non riuscivano a dominare l’incendio; ci vollero giorni per sedare le fiamme. Dovemmo evacuare il parco e non fu facile; alcune vie di fuga erano chiuse e i turisti erano nel panico. Il nostro parco non è estraneo ad eventi di questo genere; ci ritenevamo preparati a fronteggiarlo, ma la furia del fuoco e del vento è quanto di più incontrollabile esista. E ciò che fa rabbia è che eventi di questo genere potrebbero essere evitati; almeno ogni volta che dipendono dalla distrazione e dalla noncuranza dell’uomo.
Lavoro da sempre in questo Parco, ne conosco ed amo ogni angolo ed ogni singolo aspetto: la natura prepotente e selvaggia, la meraviglia dei suoi ghiacciai e dei suoi laghi nelle giornate di sole e silenzio. E credo che ci siano pochi luoghi che possano insegnare davvero che cosa sia il rispetto per l’ambiente che ci circonda: luoghi in cui la natura ed il clima non conoscono regola e pacatezza risultando anche temibili e imponendo, tassativamente, un approccio rispettoso e responsabile.
Ma non è questo l’approccio più diffuso nei visitatori che, troppo spesso, cercano in montagna solo un’esperienza da raccontare, una sfida personale da affrontare. Nei volti e negli atteggiamenti di molti vedo arroganza e superficialità.
Ma la montagna, e la natura in generale, è umiltà, rispetto, in un certo senso anche devozione. E ciò è chiaro, per fortuna, anche al nostro Governo che da anni ha adottato una politica di protezione delle proprie risorse naturali, soprattutto in aree cruciali come questa, e non è ammissibile che i sacrifici e gli sforzi di tutti noi siano vanificati da una sigaretta buttata in un bosco o da un fuoco acceso in aree non consentite. Noi diamo istruzioni precise all’ingresso nel Parco, le ribadiamo su appositi cartelloni collocati in ogni dove, e le ripetiamo all’infinito anche a voce, ma episodi come quest’ultimo, dimostrano che l’indifferenza dell’uomo nei confronti della natura non conosce limiti.
Il Conaf ha fatto tanto per conservare intatti questi luoghi e la loro biodiversità e, se per noi il turismo è fondamentale, è altrettanto fondamentale che queste zone siano preservate e rispettate. Crediamo molto in un approccio libero e consapevole e desideriamo continuare a dare la possibilità a tutti di un’esperienza selvaggia a contatto con la natura. Non dappertutto è così: penso al Parco dei Los Glaciares: il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette un approccio tipicamente economico alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza. Il concetto stesso di parco nazionale è diverso: non strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa. Non so se voi avete avuto modo di visitarlo: una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate. E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo. Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei. L’attrattiva della Patagonia è la possibilità di misurarsi con la natura e di esplorare luoghi incontaminati e noi vogliamo che possa continuare ad essere così per sempre, in un equilibrio consapevole tra uomo e natura”.
Le parole accorate del ranger riflettevano lo stato d’animo che Giulia, nei viaggi precedenti, aveva colto in tutti coloro con cui aveva parlato e sentì una profonda tristezza, accompagnata allo stesso tempo dalla voglia e dalla fiducia in un cambiamento. Quando rientrarono nella loro fredda stanza, si addormentò pensando alle campagne di sensibilizzazione ambientale che il suo dipartimento aveva intenzione di avviare in Italia nei mesi successivi. Solo l’educazione poteva produrre un mutamento reale nell’approccio alla natura ed era fondamentale intervenire prima che fosse troppo tardi.
Il mattino successivo Giulia e Dominique lasciarono il rifugio che dava sull’immensa distesa d’acqua del lago Peohè le cui acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scurivano sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradavano.
Si diressero verso la Valle Francese. Le raffiche di vento erano ancora più violente del giorno precedente, ma impararono a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arrivava, impietosa, sferzante.
Lungo il tracciato che correva basso lungo il lago, i segni dell’incendio cominciarono a divenire ancora più evidenti: le raffiche di vento spazzavano l’acqua del lago che, in onde nebulizzate, si insinuava come nebbia tra gli alberi completamente anneriti dalle fiamme in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale. La vegetazione era bassa e rada; gli arbusti più giovani, che emergevano nel paesaggio desolato, ondeggiavano piegati dalla pioggia e dal vento. I resoconti e le previsioni che Giulia aveva letto all’Università erano fedeli alla realtà? Ebbe timore che fossero troppo ottimistici ed avvertì un senso di avvilimento.
Gli zaini pesanti ed il meteo avverso rendevano lento l’incedere di Giulia e Dominique. Raggiunsero infine la Valle Francese, dove l’abbondante nevicata aveva cancellato le tracce dell’incendio, rendendo il paesaggio immacolato. Nei fugaci momenti in cui le nuvole dense si diradavano, dalla foschia emergevano maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popolava di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffiava via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazzava via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegnava i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambiava, nella forza libera e dirompente della natura Giulia sentiva la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo. E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, coglieva l’essenza stessa della propria libertà.
Si fermarono nell’accampamento situato nella valle; benché chiuso ai turisti era l’unico luogo sicuro. Era pomeriggio ormai, aveva ricominciato a nevicare ed il cielo scuro in lontananza scoraggiava dal procedere oltre. Le nove ore di camminata li fecero crollare in un sonno profondo e senza sogni.
Il mattino successivo, Giulia aprì lentamente gli occhi e, ancora indolenzita, sgusciò fuori dalla tenda. Davanti a lei una distesa di neve e ghiaccio, il sole basso che faceva appena capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida.
Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento spezzava la quiete ed il silenzio quasi surreale dell’alba australe.
Dominique la raggiunse e le sorrise. Rimasero qualche minuto in silenzio, l’uno accanto all’altra. Nulla c’era da dire davanti alla bellezza di quel paesaggio; qualunque parola avrebbe sciupato l’atmosfera quasi magica di quegli istanti. Un senso di pace li pervase e sentirono forte più che mai il senso di appartenenza a quei luoghi, agli alberi, ai boschi, ai laghi, alle montagne, alla quiete armoniosa della natura.
L’abbondante nevicata della notte rendeva imprudente accedere alla terza tappa seguendo il tracciato più lungo. Ripercorrendo al contrario il sentiero del giorno precedente e camminando di buon passo, avrebbero potuto raggiungere il Lago Gray in giornata.
Smontarono rapidi la tenda e, raccolta l’attrezzatura, ripresero il cammino.
Circondati dai ghiacciai da cui si staccavano di tanto in tanto cumuli di ghiaccio e neve, percorsero veloci il primo tratto del tragitto.
Giunti all’altezza del Rifugio Grande erano già esausti, ma decisero di procedere oltre e in un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquistarono la vista del lago Gray, con le sue acque scure e austere. Costeggiandone le sponde raggiunsero l’omonimo ghiacciaio che si tuffava nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiariva sino al cobalto. Nell’acqua iceberg azzurri galleggiavano l’uno accanto all’altro, sfiorati dagli ultimi fiochi raggi del sole.
Era nell’area del Lago Gray che tre anni prima era divampato l’incendio ma, del tutto inaspettatamente, proprio lì Giulia trovò che le attività di recupero avessero avuto maggior successo. Nei tronchi abbattuti e nella vegetazione bassa e chiara si coglievano ancora le tracce dell’evento, ma man mano che si avvicinavano al ghiacciaio, il bosco diventava più fitto e sano. I resoconti dicevano il vero. Giulia non riuscì a trattenere la commozione. Lei, gli altri studiosi che avevano lavorato giorno e notte per questo Parco e tutti coloro che materialmente avevano partecipato all’attività intesa a proteggerne, prima, e ripristinarne, poi, l’ecosistema avevano fatto qualcosa di grande e tutti avevano in comune l’immenso amore per la natura. La strada era ancora lunga, ma i primi risultati iniziavano lentamente a notarsi. La natura si stava riappropriando di sé stessa, gli animali stavano con fiducia ritrovando il loro posto; gli equilibri si stavano lentamente ricostituendo.
Trascorsero la notte a poca distanza dal ghiacciaio, cullati dal rumore del vento e dallo sciabordio dell’acqua che lambiva i bordi delle lingue di ghiaccio azzurro.
Il giorno successivo una nuova bufera si abbatté sulla zona rendendo impossibile addentrarsi oltre. Un battello li portò dall’altro lato del lago, attraversandolo nel suo tratto più stretto e da lì con un van raggiunsero Punta Arenas.
Mentre Giulia lasciava quei luoghi sentì dentro di sé una grande emozione.
Ora, pensò tra sé, non resta che confidare nel futuro e nel potere dell’educazione, affinché l’ambiente, lungi dall’essere un concetto astratto e lontano dall’uomo, possa essere percepito come qualcosa di cui quest’ultimo fa parte e di cui si sente responsabile; qualcosa da cui dipende la sua stessa vita.
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