"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

martedì 30 settembre 2014

Racconto breve: Tutt'intorno silenzio

All rights reserved
Patagonia Meridionale. Mentre l’aereo atterrava sotto una pioggia fitta Giulia ripensava alla prima volta che era arrivata a Punta Arenas e alle sensazioni che avevano accompagnato quel viaggio.
Un devastante incendio aveva distrutto un’estesa area del parco nazionale del Torres del Paine e, quando, dopo alcune settimane, furono sedate le fiamme, un team internazionale di studiosi accorse sul posto per una prima stima dei danni.
Giulia, ricercatrice di biologia ambientale, fu tra i primi ad arrivare nell’area; quando la piccola imbarcazione che, dalla cinta più esterna del Parco, attraversando il Lago Peohè, l’aveva condotta al Rifugio Grande, una delle zone più colpite dall’incendio, ciò che vide fu uno spettacolo che la lasciò sgomenta.
Come studiosa, come alpinista, come essere umano.
Aveva visto le immagini del Parco prima che le fiamme lo divorassero e la bellezza di quei paesaggi l’aveva colpita profondamente: i grandi laghi dall’acqua turchese, le torri di granito, le foreste dense di vegetazione erano un palpitare di vita.
Nulla restava ormai, se non un debole battito di quel cuore pulsante nelle lande desolate della Patagonia Meridionale. Davanti a sé Giulia vide un paesaggio di morte in cui il verde delle foreste e dei prati ed i colori dei fiori avevano ceduto il passo a pendii anneriti dalle fiamme, prati coperti di cenere, tronchi nudi e scuri che, come scheletri in una macabra danza, si piegavano e scricchiolavano sotto la forza imperiosa del vento.
Ed era rabbia, tristezza, impotenza quella che Giulia leggeva negli occhi dei ranger, dei funzionari della regione, degli abitanti; persone che vivevano in quei luoghi e che da quei luoghi traevano anche il proprio benessere ed il proprio sostentamento.
Ma adesso tutto era distrutto. Per negligenza, per superficialità. Per un fuoco acceso in una zona non autorizzata.
Per circa un mese Giulia aveva camminato, fotografato, preso appunti, fatto calcoli; si era confrontata con gli altri studiosi; insieme avevano steso stime e fatto previsioni per il futuro. Un mese intenso, faticoso e doloroso per la vista e per il cuore, perché anche la scienza davanti alla morte e alla distruzione non poteva rimanere fredda ed impassibile.
Il team di scienziati accertò che furono distrutti circa diciassettemila ettari della riserva con danni enormi alla flora e alla fauna: stimarono che i primi significativi risultati di un’attività di recupero dell’area, pur intervenendo immediatamente, sarebbero stati visibili non prima di quindici anni.
Giulia rientrò in Italia con un profondo senso di amarezza; si occupava da dieci anni di disastri ambientali, ma ogni volta non riusciva a trovare una giustificazione, un’attenuante alla superficialità umana.
Un luogo con una varietà così significativa di specie vegetali e animali, tanto da essere proclamato riserva dello biosfera negli anni settanta, messo in ginocchio da un atto di noncuranza. Il colpevole individuato e processato aveva ammesso le proprie responsabilità; ma non poté qualche giorno trascorso in carcere o il pagamento di multa rimediare ai danni cagionati.
Nei tre anni successivi il team di scienziati di cui Giulia faceva parte fu coinvolto in ulteriori e più approfonditi studi, fu steso un piano di recupero dell’ecosistema boschivo e lacustre e furono prontamente avviate tutte le attività necessarie per metterlo in pratica.
Dopo i sopralluoghi compiuti nel corso del primo anno e mezzo successivo all’evento, Giulia non era più tornata in Patagonia; aveva svolto i propri studi alla scrivania nel confortevole dipartimento della sua università. Le immagini di quel disastro erano dunque lontane dagli occhi ma difficilmente Giulia avrebbe dimenticato il senso di sconfitta e di impotenza che aveva provato davanti a quello scempio.
Erano passati tre anni dall’incendio. Una mattina di luglio, terminato il ricevimento di alcuni studenti in apprensione per gli esami della sessione estiva, Giulia aveva ricevuto una mail recante un aggiornamento sugli ultimi risultati dell’attività di ripristino del Parco e, con sollievo, aveva appreso che, nonostante le condizioni climatiche estreme che rendevano assai più difficile l’attecchire di piante giovani e delicate, la natura stava riuscendo a riprender possesso dei propri luoghi riaffermando la propria forza e dignità.
Di lì a due settimane avrebbe avuto inizio il suo periodo di ferie e non ebbe esitazione alcuna: era arrivato il momento di tornare nella regione dei Magallanes; non solo come scienziata, ma come essere umano; e nulla avrebbe avuto in contrario Dominique, suo compagno e fotogiornalista, che senza batter ciglio l’avrebbe accompagnata nel viaggio.
Le due settimane erano volate nei preparativi della nuova avventura che li avrebbe portati a sfidare l’inverno australe. Avevano contattato il Conaf, l’ente d’amministrazione del Parco per conoscere lo stato dei sentieri: la maggior parte di essi era chiusa ai turisti per eccessivo innevamento, ma con un pass speciale concesso per scopi scientifici, avrebbero potuto accedere anche alle aree più remote.
L’aero toccò finalmente terra, dopo un turbolento volo durato quattordici ore.
Un van privato li condusse da Punta Arenas all’ingresso della riserva; Giulia sentiva il cuore batterle forte: sapeva che per quanto il recupero dell’area stesse avvenendo in maniera piuttosto veloce, avrebbe trovato ancora una realtà fortemente segnata dall’incendio.
Quando scesero dal bus una pioggia sferzante colpì i loro volti: da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattevano sulla regione. Indossarono i pantaloni e le giacche antipioggia, coprirono gli enormi zaini con i teli impermeabili e si avviarono lungo il sentiero che dall’amministrazione del parco li avrebbe portati al Rifugio Grande, sul Lago Peohè, una delle aree più colpite dalle fiamme; di lì avrebbero verificato lo stato dei luoghi fino alla Valle Francese e, successivamente, avrebbero raggiunto l’area del Lago Grey, anch’essa gravemente danneggiata dal fuoco.
Nelle cinque ore di cammino che impiegarono per raggiungere la prima tappa, non incontrarono nessuno; i rari turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, si fermavano  ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. Nei mesi invernali in pochi andavano oltre: un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, veniva restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione.
Nella cinta più esterna della riserva, Giulia e Dominique incontrarono soltanto mandrie di cavalli selvaggi che correvano sotto le pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno; dove l’erba era più alta, spuntava di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca; i guanaco si muovevano flemmaticamente nella tundra; alcuni grossi condor volavano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
In quell’area nulla preannunciava lo spettacolo terribile che avrebbero incontrato più avanti, oltre la prima cintura di basse colline che li separava dal Lago Peohè.
Addentrandosi nella cinta più interna della riserva, i pochi sentieri sgombri di neve si erano trasformati in ruscelli di acqua e fango. La pioggia aveva reso i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi. Il vento soffiava con raffiche violente e repentine che superavano i cento chilometri l’ora.
Man mano che procedevano, la vegetazione verde e rigogliosa lasciava spazio a pochi arbusti secchi, alberi senza fronde dai tronchi squarciati. E non era il passeggero effetto dell’inverno; quegli alberi non sarebbero rifioriti in primavera. La desolazione che lentamente si impadroniva del paesaggio era la traccia evidente e dolorosa del percorso che le fiamme avevano compiuto nel divorare il parco.
Dominique e Giulia raggiunsero il Rifugio Grande quando il sole era ormai quasi tramontato; giunti all’interno lasciarono gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia nell’unica stanza dotata di stufa a legna. Quel rifugio era la sola struttura aperta ed offriva unicamente un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto gas per cucinare, un letto ed una doccia calda che dava su una finestra malandata da cui entravano spifferi di aria gelida.
Nel rifugio trovarono, oltre ad un impiegato della struttura e ad un ranger, soltanto un gruppo di simpatici ragazzi americani, accompagnati dalla loro guida.
Dopo un frugale pasto, Giulia e Dominique si intrattennero nella sala riscaldata, alla luce del fuoco che ardeva nella stufa.
Mentre chiacchieravano con i ragazzi americani, fermi lì da due giorni a causa del maltempo, entrò il ranger, un uomo di mezza età, il viso solcato da profonde rughe, segno degli anni, del sole e del freddo che, sedutosi pesantemente su una vecchia panca di legno chiaro, rincuorò il gruppo su un probabile miglioramento, il giorno successivo, delle condizioni meteo.
I ragazzi americani sarebbero potuti rientrare in sicurezza all’amministrazione, dove li avrebbe attesi un van per Puerto Natales, il centro abitato più vicino, mentre Dominique e Giulia avrebbero potuto compiere con minor fatica il loro percorso.
Il ranger, che era stato informato del pass speciale ottenuto da questi ultimi, chiese loro cosa li avesse portati in Patagonia. Giulia raccontò della sua esperienza con il team di studiosi ai tempi dell’incendio e del desiderio di vedere dal vivo quali progressi vi fossero stati nel recupero ambientale.
Il ranger, nel rammentare i terribili giorni dell’incendio, non poté trattenere la propria rabbia e il proprio dispiacere: “non dimenticherò mai la sensazione di sconfitta nel vedere ettari ed ettari di parco andare a fuoco, l’immagine delle fiamme che veloci divoravano gli alberi e le piante, gli animali che fuggivano terrorizzati. Le ore passavano e i focolai aumentavano. Ci sentivamo impotenti. In quei giorni il vento era particolarmente forte e i vigili del fuoco non riuscivano a dominare l’incendio; ci vollero giorni per sedare le fiamme. Dovemmo evacuare il parco e non fu facile; alcune vie di fuga erano chiuse e i turisti erano nel panico. Il nostro parco non è estraneo ad eventi di questo genere; ci ritenevamo preparati a fronteggiarlo, ma la furia del fuoco e del vento è quanto di più incontrollabile esista. E ciò che fa rabbia è che eventi di questo genere potrebbero essere evitati; almeno ogni volta che dipendono dalla distrazione e dalla noncuranza dell’uomo.
Lavoro da sempre in questo Parco, ne conosco ed amo ogni angolo ed ogni singolo aspetto: la natura prepotente e selvaggia, la meraviglia dei suoi ghiacciai e dei suoi laghi nelle giornate di sole e silenzio. E credo che ci siano pochi luoghi che possano insegnare davvero che cosa sia il rispetto per l’ambiente che ci circonda: luoghi  in cui la natura ed il clima non conoscono regola e pacatezza risultando anche temibili e imponendo, tassativamente, un approccio rispettoso e responsabile.
Ma non è questo l’approccio più diffuso nei visitatori che, troppo spesso, cercano in montagna solo un’esperienza da raccontare, una sfida personale da affrontare. Nei volti e negli atteggiamenti di molti vedo arroganza e superficialità.
Ma la montagna, e la natura in generale, è umiltà, rispetto, in un certo senso anche devozione. E ciò è chiaro, per fortuna, anche al nostro Governo che da anni ha adottato una politica di protezione delle proprie risorse naturali, soprattutto in aree cruciali come questa, e non è ammissibile che i sacrifici e gli sforzi di tutti noi siano vanificati da una sigaretta buttata in un bosco o da un fuoco acceso in aree non consentite. Noi diamo istruzioni  precise all’ingresso nel Parco, le ribadiamo su appositi cartelloni collocati in ogni dove, e le ripetiamo all’infinito anche a voce, ma episodi come quest’ultimo, dimostrano che l’indifferenza dell’uomo nei confronti della natura non conosce limiti.
Il Conaf ha fatto tanto per conservare intatti questi luoghi e la loro biodiversità e, se per noi il turismo è fondamentale, è altrettanto fondamentale che queste zone siano preservate e rispettate. Crediamo molto in un approccio libero e consapevole e desideriamo continuare a dare la possibilità a tutti di un’esperienza selvaggia a contatto con la natura. Non dappertutto è così: penso al Parco dei Los Glaciares: il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette un approccio tipicamente economico alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza. Il concetto stesso di parco nazionale è diverso: non strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa. Non so se voi avete avuto modo di visitarlo: una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate. E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo.  Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei. L’attrattiva della Patagonia è la possibilità di misurarsi con la natura e di esplorare luoghi incontaminati e noi vogliamo che possa continuare ad essere così per sempre, in un equilibrio consapevole tra uomo e natura”.
Le parole accorate del ranger riflettevano lo stato d’animo che Giulia, nei viaggi precedenti, aveva colto in tutti coloro con cui aveva parlato e sentì una profonda tristezza, accompagnata allo stesso tempo dalla voglia e dalla fiducia in un cambiamento. Quando rientrarono nella loro fredda stanza, si addormentò pensando alle campagne di sensibilizzazione ambientale che il suo dipartimento aveva intenzione di avviare in Italia nei mesi successivi. Solo l’educazione poteva produrre un mutamento reale nell’approccio alla natura ed era fondamentale intervenire prima che fosse troppo tardi.
Il mattino successivo Giulia e Dominique lasciarono il rifugio che dava sull’immensa distesa d’acqua del lago Peohè le cui acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scurivano sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradavano.
Si diressero verso la Valle Francese. Le raffiche di vento erano ancora più violente del giorno precedente, ma impararono a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arrivava, impietosa, sferzante.
Lungo il tracciato che correva basso lungo il lago, i segni dell’incendio cominciarono a divenire ancora più evidenti: le raffiche di vento spazzavano l’acqua del lago che, in onde nebulizzate, si insinuava come nebbia tra gli alberi completamente anneriti dalle fiamme in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale. La vegetazione era bassa e rada; gli arbusti più giovani, che emergevano nel paesaggio desolato, ondeggiavano piegati dalla pioggia e dal vento. I resoconti e le previsioni che Giulia aveva letto all’Università erano fedeli alla realtà? Ebbe timore che fossero troppo ottimistici ed avvertì un senso di avvilimento.
Gli zaini pesanti ed il meteo avverso rendevano lento l’incedere di Giulia e Dominique. Raggiunsero infine la Valle Francese, dove l’abbondante nevicata aveva cancellato le tracce dell’incendio, rendendo il paesaggio immacolato. Nei fugaci momenti in cui le nuvole dense si diradavano, dalla foschia emergevano maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popolava di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffiava via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazzava via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegnava i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambiava, nella forza libera e dirompente della natura Giulia sentiva la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo. E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, coglieva l’essenza stessa della propria libertà.
Si fermarono nell’accampamento situato nella valle; benché chiuso ai turisti era l’unico luogo sicuro. Era pomeriggio ormai, aveva ricominciato a nevicare ed il cielo scuro in lontananza scoraggiava dal procedere oltre. Le nove ore di camminata li fecero crollare in un sonno profondo e senza sogni.
Il mattino successivo, Giulia aprì lentamente gli occhi e, ancora indolenzita, sgusciò fuori dalla tenda. Davanti a lei una distesa di neve e ghiaccio, il sole basso che faceva appena capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida.
Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento spezzava la quiete ed il silenzio quasi surreale dell’alba australe.
Dominique la raggiunse e le sorrise. Rimasero qualche minuto in silenzio, l’uno accanto all’altra. Nulla c’era da dire davanti alla bellezza di quel paesaggio; qualunque parola avrebbe sciupato l’atmosfera quasi magica di quegli istanti.  Un senso di pace li pervase e sentirono forte più che mai il senso di appartenenza a quei luoghi, agli alberi, ai boschi, ai laghi, alle montagne, alla quiete armoniosa della natura.
L’abbondante nevicata della notte rendeva imprudente accedere alla terza tappa seguendo il tracciato più lungo. Ripercorrendo al contrario il sentiero del giorno precedente e camminando di buon passo, avrebbero potuto raggiungere il Lago Gray in giornata.
Smontarono rapidi la tenda e, raccolta l’attrezzatura, ripresero il cammino.
Circondati dai ghiacciai da cui si staccavano di tanto in tanto cumuli di ghiaccio e neve, percorsero veloci il primo tratto del tragitto.
Giunti all’altezza del Rifugio Grande erano già esausti, ma decisero di procedere oltre e in un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquistarono la vista del lago Gray, con le sue acque scure e austere. Costeggiandone le sponde raggiunsero l’omonimo ghiacciaio che si tuffava nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiariva sino al cobalto. Nell’acqua iceberg azzurri galleggiavano l’uno accanto all’altro, sfiorati dagli ultimi fiochi raggi del sole.
Era nell’area del Lago Gray che tre anni prima era divampato l’incendio ma, del tutto inaspettatamente, proprio lì Giulia trovò che le attività di recupero avessero avuto maggior successo. Nei tronchi abbattuti e nella vegetazione bassa e chiara si coglievano ancora le tracce dell’evento, ma man mano che si avvicinavano al ghiacciaio, il bosco diventava più fitto e sano. I resoconti dicevano il vero. Giulia non riuscì a trattenere la commozione. Lei, gli altri studiosi che avevano lavorato giorno e notte per questo Parco e tutti coloro che materialmente avevano partecipato all’attività intesa a proteggerne, prima, e ripristinarne, poi, l’ecosistema avevano fatto qualcosa di grande e tutti avevano in comune l’immenso amore per la natura. La strada era ancora lunga, ma i primi risultati iniziavano lentamente a notarsi. La natura si stava riappropriando di sé stessa, gli animali stavano con fiducia ritrovando il loro posto; gli equilibri si stavano lentamente ricostituendo.
Trascorsero la notte a poca distanza dal ghiacciaio, cullati dal rumore del vento e dallo sciabordio dell’acqua che lambiva i bordi delle lingue di ghiaccio azzurro.
Il giorno successivo una nuova bufera si abbatté sulla zona rendendo impossibile addentrarsi oltre. Un battello li portò dall’altro lato del lago, attraversandolo nel suo tratto più stretto e da lì con un van raggiunsero Punta Arenas.
Mentre Giulia lasciava quei luoghi sentì dentro di sé una grande emozione.
Ora, pensò tra sé, non resta che confidare nel futuro e nel potere dell’educazione, affinché l’ambiente, lungi dall’essere un concetto astratto e lontano dall’uomo, possa essere percepito come qualcosa di cui quest’ultimo fa parte e di cui si sente responsabile; qualcosa da cui dipende la sua stessa vita.

venerdì 26 settembre 2014

Racconto breve: La vecchia cartiera

(All rights reserved)
Inforcata la bici, Dominique pedalava senza fretta; con sé, soltanto un quaderno, una vecchia Leica e la voglia di esplorare i dintorni.
Era la prima volta che percorreva quella strada che, incorniciata da una nuvola di foglie gialle, costeggiava le acque lente e opache del fiume. I contorni della campagna che sfumavano nella nebbia sottile, gli stormi di uccelli silenziosi, la quiete delicata delle prime ore del mattino creavano un’atmosfera surreale.
Lungo il percorso la strada si apriva, inaspettatamente, in un grande spiazzo di cemento. Una piccola diga dagli ingranaggi arrugginiti incanalava l’acqua del fiume e, alle sue spalle, una fabbrica dismessa si stagliava nell’aria fumosa. Un edificio di mattoni rossi, l’intonaco eroso dalle intemperie, ed una ciminiera scura e solitaria era quanto restava di una vecchia cartiera.
Dominique si fermò catturato dall’immagine e dalle sensazioni che quel luogo evocava: pensò a quante storie dovessero essere racchiuse in quelle mura, a quante vite fossero passate di lì. Un edificio di mattoni rossi che raccontava la quotidianità di uomini e donne che avevano lavorato in questo paese e per questo paese; la storia di una generazione che, spesso, aveva lasciato la propria terra, che aveva sofferto e combattuto per i propri diritti. Chiuse gli occhi e gli sembrò quasi di poterle sentire quelle storie, di poter percepire i pensieri e le emozioni di chi, ogni mattina, aveva osservato quello stesso paesaggio dalle finestre quadrettate della fabbrica.
Sbirciò all’interno della fabbrica da una finestra rotta. Cercò l’ingresso trovando una porta malmessa, ne forzò la serratura e i battenti, cigolando, si aprirono su un locale dal soffitto altissimo dove grossi macchinari giacevano nella polvere e nelle ragnatele; ne accarezzò con lo sguardo le forme immaginando lo stridere degli ingranaggi nel dare vita a lunghi fogli di carta. Nell’aria aleggiavano ancora il sentore acre della cellulosa e l’odore del cloro. In fondo alla stanza una stretta scala conduceva al piano superiore che ospitava, dopo una piccola anticamera, quello che doveva essere stato l’ufficio del titolare della cartiera: le pareti rivestite di una sbiadita carta da parati a righe, una robusta scrivania di legno scuro ed una poltrona di velluto verde ingrigita dal tempo e dalla polvere. Al medesimo piano, al fondo di un corridoio, Dominique scorse una porta senza più i cardini che dava su un piccolo ufficio illuminato da una finestra malandata; accanto ad essa c’era una pesante scrivania erosa dai tarli su cui troneggiava una macchina da scrivere con i tasti rotti; in un angolo, vicino ad un attaccapanni con su un vecchio cappello consunto, giaceva un mucchio di faldoni coperti di polvere. Dominique vi si avvicinò, si abbassò e aprì uno dei fascicoli; conteneva buste paga e alcune lettere. Su un foglio ingiallito dal tempo, si decifravano a mala pena una data, Milano 16 settembre 1985, e poi più in basso una firma, Nino Parisi. La polvere lo fece tossire; diede un ultimo sguardo attorno ed uscì.
All’esterno vide un’anziana donna che prima non aveva notato.
Sedeva su un muretto malmesso che dava sulla piattaforma ferrosa della diga, lo sguardo rivolto ad una finestra dell’edificio. Indossava un cappotto scuro troppo largo per il suo corpo minuto ed una vecchia e lisa sciarpa di lana blu che stonavano con i capelli grigi raccolti ordinatamente sulla nuca e le piccole perle che pendevano ai lobi delle orecchie conferendole un’aria composta e dignitosa.
Istintivamente Dominique le si avvicinò, e volse lo sguardo verso quella stessa finestra al secondo piano che l’anziana guardava malinconicamente. La donna, che sembrava non aver notato la sua presenza, ruppe invece il silenzio. Senza voltarsi, con voce delicata che tradiva un impercettibile accento siciliano, disse: “sapessi quanti anni ho lavorato in quella fabbrica. Ogni mattina, all’alba, qualunque fossero le condizioni del tempo, prendevo la mia bicicletta e venivo qui. La ricordo ancora la mia bicicletta, me l’aveva regalata mio marito. Era bella, rossa come il mio colore preferito. Me la regalò quando mi presero a lavorare qui. Mi disse ‘Mela – così mi chiamava mio marito – Mela, adesso hai bisogno di una bicicletta, non puoi andare a lavoro a piedi. Sapevo che era una scusa per farmi un regalo; i soldi erano pochi, sai. Ma accettai di buon grado perché una bici tutta mia non l’avevo mai avuta. Quando ero ragazzina, in Sicilia, rubavo le bici sgangherate dei miei fratelli e pedalavo per ore. Mi sentivo libera. Me lo ricordo ancora l’odore pungente della campagna d’estate, l’erba gialla, alta, il sole bollente. E ricordo anche le botte che prendevo quando tornavo a casa: ero una femmina e dovevo pensare a cucinare e lavare, ma a me quella vita non piaceva. Volevo sentirmi libera, come quando pedalavo in campagna. A vent’anni sposai mio marito Nino. In quel periodo c’era tanta miseria, ma noi eravamo giovani e avevamo tanti sogni. Un amico di Nino che viveva a Milano raccontò che qui la vita era difficile ma che c’erano anche tante opportunità. Fu così che lasciammo la Sicilia ed il profumo dei fiori e dell’erba. Entrambi venimmo a lavorare in quest’azienda, lui come ragioniere e, dopo qualche tempo, anch’io come segretaria. I primi mesi furono duri ma eravamo felici perché ci sentivamo liberi di inventare il nostro futuro. Avevamo tutta la vita davanti a quei tempi. Tutta la vita.”
Su quell’ultima frase la voce le si incrinò.
“La vedi quella finestra al secondo piano? Era la stanza di mio marito e quando la sera lui si doveva trattenere più a lungo, io uscivo e mi mettevo seduta qui, su questo muretto, e lo guardavo lavorare, aspettando che finisse. Faceva finta di arrabbiarsi, mi diceva di tornare a casa, che non aspettassi nell’umido della sera, ma in realtà era contento che restassi. Quando finiva, mi faceva un cenno con la mano, spegneva la luce e correva giù. Da me.”
Si fermò un attimo, poi riprese.
 “Non c’è più, sai, da un mese non c’è più. Ma la vita è stata generosa con noi. Nonostante le difficoltà, abbiamo vissuto insieme, sempre l’uno a fianco all’altra. Le giornate di lavoro erano lunghe, pesanti. Non avevamo diritto quasi a nulla e ad ancor meno avevano diritto gli operai che lavoravano qui. Sentivo i capi urlare e minacciarli. E i sindacati non ci aiutavano abbastanza, né a noi né a loro. Ci iscrivemmo anche al partito, servì a poco, ma noi ci abbiamo creduto, abbiamo lottato e ci piaceva pensare di aver fatto qualcosa per migliorare questo mondo”.
Dopo una breve pausa in cui si perse tra i ricordi proseguì: “poi la giornata finiva e, pur stanchi, passavamo intere serate a leggere di viaggi in terre lontane; non avevamo soldi per viaggiare, ma era bello quando arrivava la domenica e potevamo scappare al lago in bicicletta, stenderci sul prato e sognare ad occhi aperti guardando il cielo. Quello era il nostro modo di essere liberi. Mai nessuno ha potuto rubare i nostri sogni, quelli realizzati e quelli che sono rimasti nella nostra mente.
E, ora, io torno qui, ogni mattina. Mi piace ricordare quei tempi. E mi piace pensare che lui sia ancora lì, dietro a quella finestra, a lavorare, guardandomi distrattamente”.
Si voltò verso Dominique mostrando un viso con una profonda ruga che solcava la fronte, il dolore e, allo stesso tempo, un senso di pace negli occhi ancora blu.
Si alzò a fatica dal muretto.  Gli rivolse un ultimo sguardo, un tenue sorriso e si allontanò.
Dominique la guardò camminare lentamente stringendosi nel cappotto troppo largo finché la sua figura svanì nella nebbia leggera.
Alzò lo sguardo verso la finestra malandata. Pensò a quella storia, a quel pezzo di intimità che la donna aveva voluto condividere con lui, pensò a quel passato e al presente. Pensò a sé, alla propria storia e alla storia di tutti quei ragazzi che viaggiano per il mondo cercando il proprio futuro e la propria libertà.
Ripensò alla sensazione di fiducia che aveva provato mentre l’aereo si staccava da terra per portarlo verso una nuova vita e ripensò alla sua città mentre sfumava all’orizzonte: erano passati quattro anni da allora e Dominique non poteva più ignorare il senso di profondo disagio che avvertiva e che l’incontro con l’anziana signora aveva acuito. Pensò con amarezza a tutte le volte in cui aveva permesso a degli estranei di entrare nella sua vita, sgretolando le sue aspirazioni e cancellando la sua libertà. Pensò ai diritti quotidianamente calpestati: gli stipendi pagati saltuariamente, gli orari di lavoro massacranti, le domeniche perdute, le vessazioni. A cosa erano servite le battaglie e i sacrifici delle generazioni passate? La cieca illusione della donna cedeva purtroppo il passo al disincanto della sconfitta e alla rabbia che Dominique leggeva dentro e fuori di sé. Aveva lasciato la sua città per diventare giornalista; avrebbe voluto scrivere e fotografare la vita ed invece si trovava inchiodato in una redazione, imbrigliato in assurde logiche dettate da equilibri che con la vita nulla avevano a che vedere, in un paese in cui i diritti sono solo petizioni di principio, norme mal scritte in antiquati testi di legge.
Ma non era ciò che voleva per sé e per la sua giovane famiglia.
“Nessuno può rubare i nostri sogni e la nostra libertà” aveva detto la donna.
La mente andò oltralpe. Ancora un’illusione forse, ma valeva la pena tentare, la sua bimba di pochi mesi aveva ancora diritto di sognare.
Afferrò la bici e, sotto i raggi tiepidi del sole del mattino, in una nuova consapevolezza, Dominique riprese la sua corsa verso il futuro e, forse, stavolta verso la libertà.

mercoledì 3 settembre 2014

Reportage: Patagonia d'inverno

da "Reportage  - La Patagonia d’inverno"
di Cristina Romano. Foto di Andrea Giuseppe Sanfilippo
(All rights reserved) Nota: è possibile visionare l'elenco completo delle foto sul sito www.agsanfilippo.eu 

Una regione che si estende per migliaia di chilometri tra pianure verdi e vulcani, aree desertiche e distese di ghiaccio, parchi incontaminati, picchi che si protendono verso il cielo nascosti tra la nebbia e le nubi dense, fiumi tortuosi, laghi immensi, il mare che si perde in fiordi labirintici, il sole basso che di rado fa capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida. Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento, che soffia con raffiche violente ed improvvise, spezza la quiete ed il silenzio quasi surreale della Patagonia nei giorni d’inverno.
Ma è proprio quando la natura diventa più prepotente e le condizioni climatiche più estreme che riesci ad afferrare davvero il fascino primordiale e selvaggio di questi luoghi.
Nel Nord, il Distretto dei Laghi, con il suo paesaggio delicato e rassicurante, i numerosi specchi d’acqua, i pendii erbosi e i prati luccicanti ricorda le campagne della Germania meridionale.  Nel clima umido e piovoso di una domenica d’inverno, il piccolo villaggio di Puerto Varas poltrisce adagiato tra il lago Llanquihue e basse colline verdi.  I negozi sono chiusi e per strada ci sono poche persone.  Case basse si susseguono una dopo l’altra; nei piccoli giardini che le circondano troneggiano alberi nudi dai grossi tronchi sui cui rami uccelli dal petto chiaro verseggiano con malagrazia.  Improvvisamente le nuvole si diradano lasciando spazio a qualche raggio di sole che timidamente illumina l’enorme lago.  Un grande arcobaleno si spiega sullo specchio d’acqua e al di là di esso, immerso tra le nubi, il maestoso vulcano Osorno e tutt’intorno una lunga catena di montagne innevate.  Un lungo marciapiede cammina lungo la riva; al termine di esso, sotto la collina, una grande statua di rame che raffigura una donna con le braccia protese verso il vulcano, a invocarne la benevolenza e a fermarne la lava rovente.
Inerpicandosi verso la collina si raggiunge un belvedere da cui si ha un’ampia visuale del paese, di cui si coglie nitidamente l’impronta europea, effetto dell’immigrazione tedesca dell’Ottocento: il governo Cileno, interessato ad acquisire l’area controllata dagli indigeni Mapuche, incentivò tutte le iniziative che ne favorissero la colonizzazione e, nell’ambito di tale progetto, il console cileno ad Amburgo, facendo leva sul diffuso malcontento della classe operaia tedesca ne esortò l’emigrazione verso il Cile con la promessa di un miglioramento della qualità della vita e del lavoro.  Successivamente, acquisita la regione al governo Cileno, fu la volta della borghesia cui furono assegnati vasti appezzamenti di terreno per la realizzazione di abitazioni, scuole ed infrastrutture.
A breve distanza da Puerto Varas si stende per numerosi ettari il Parco Nazionale Vicente Pérez Rosales, la riserva naturale più antica del Cile.  Lo sguardo si perde tra basse montagne innevate ed imponenti vulcani a forma di cono che si stagliano tra le nubi; tra di essi il Vulcano Osorno che completamente imbiancato troneggia sulla pianura d’erba chiara, la vegetazione bassa e rada, le distese di fango.  Nei mesi invernali, l’abbondanza di neve e le condizioni meteo avverse ostacolano l’ascesa alla vetta del vulcano, costringendo il più delle volte a percorsi che corrono lungo le sue pendici, lambite da un’ansa del lago Llanquihuè.  Il vulcano concede un’ulteriore meravigliosa vista a Los Saltos dove il fiume Petrouhè, scorrendo in particolari formazioni geologiche di origine vulcanica, si trasforma in potenti cascate d’acqua gorgogliante.
Il fascino delicato della Patagonia del Nord lascia spazio, viaggiando verso Sud, al fascino misterioso e prepotente delle sconfinate lande meridionali, dove la tundra ed il ghiaccio si estendono per centinaia di chilometri.
Sul Fiordo di Ultima Esperanza, Puerto Natales, un modesto villaggio di pescatori, costituisce il punto d’accesso ad alcuni parchi nazionali della Patagonia meridionale: il Bernando O’Higgins ed il Torres del Paine.
Una piccola imbarcazione conduce alla scoperta del Parco O’Higgins navigando attraverso il Fiordo; è l’alba e la barca incede faticosamente lungo la costa, frenata dal vento forte, tra isole di cormorani e piccole cascate, fino a raggiungere i ghiacciai Balmaceda e Serrano, due lingue di ghiaccio azzurro che si tuffano nel mare, circondate da basse montagne innevate. Il Parco, che include la maggior parte dei ghiacciai del campo di ghiaccio della Patagonia del Sud, conserva la sua natura selvaggia e incontaminata, grazie al territorio aspro e, in alcuni punti impenetrabile, che ne ha scoraggiato l’accesso al turismo di massa.
Da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattono sulla regione.  La maggior parte dei sentieri
del Parco del Torres del Paine è chiusa per eccessivo innevamento, così come i rifugi e gli accampamenti.  Soltanto il Rifugio Grande, sul Lago Peohè, è aperto ed offre un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto un letto, una doccia calda che dà su una finestra malandata da cui entrano spifferi di aria pungente, gas per cucinare ed un’unica stanza con una stufa a legna per asciugare gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia.  Nei mesi invernali anche il servizio di trasporto pubblico è interrotto: per raggiungere l’ingresso del Parco da Puerto Natales occorre affidarsi a bus privati impiegati per i pochi turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, diretti ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. In pochi vanno oltre. Un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, viene restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione. Per chilometri e chilometri incontri soltanto mandrie di cavalli selvaggi che corrono alle pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno.  Dove l’erba è più alta, vedi spuntare di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca.  I guanaco, cugini dei più noti lama, si muovono flemmaticamente nella tundra.  Alzando lo sguardo, in lontananza, alcuni grossi condor volano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
I pochi sentieri sgombri di neve si sono trasformati in ruscelli di acqua e fango.  La pioggia rende i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi.  Il vento soffia con raffiche violente e repentine che superano i cento chilometri l’ora; man mano che ti inoltri nella riserva diventano più forti, ma impari a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arriva, impietosa, sferzante. Lungo i tracciati che corrono bassi lungo il lago Peohè le raffiche spazzano forte l’acqua spingendola in onde nebulizzate verso la riva, che si insinuano come nebbia tra gli alberi spogli e neri in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale; minuscole trombe d’aria si formano rapide ed improvvise vorticando veloci al centro del lago per poi dissolversi.  Le sue acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scuriscono sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradano.

In quegli stessi fugaci momenti dalla foschia emergono maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popola di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffia via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazza via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegna i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambia, nella forza libera e dirompente della natura senti la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo.  E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, cogli l’essenza stessa della libertà.
In un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquisti la vista di laghi dalle sfumature e dalle forme variegate, come il Sarmiento, il Nordenskjold ed il Gray, che prende  il nome dalla scura tonalità dei suoi colori.  Costeggiandone le sponde si raggiunge l’omonimo ghiacciaio che si tuffa nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiarisce sino al cobalto.  Nell’acqua iceberg azzurri galleggiano l’uno accanto all’altro, sfiorati di tanto in tanto da un fioco raggio di sole.
Questo Parco, peraltro dichiarato dall’Unesco, negli anni settanta, riserva naturale della biosfera, esprime esattamente lo spirito selvaggio e profondamente spirituale della Patagonia, la potenza della natura, la fatica e l’entusiasmo della conquista.
Non può dirsi altrettanto, invece, di un parco forse anche più famoso del Torres del Paine: il Parco dei Los Glaciares situato nell’area argentina della Patagonia.
Il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette l’approccio tipicamente argentino alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza.  Il concetto stesso di parco nazionale si trasforma: non più strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa.  Una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate.  E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo.
Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei.
La Patagonia, tuttavia, non è solo il luogo della natura prepotente e selvaggia, delle scalate epiche o delle imprese affascinanti descritte nei romanzi. La Patagonia è anche un luogo in cui la storia ha lasciato un’impronta visibile di sofferenza, teatro di soprusi e identità culturali tradite.
Un territorio solitario, ai confini del mondo, ma provvisto di abbondanti risorse naturali e minerarie. E dunque un territorio appetibile, come dimostrano le grandi colonizzazioni spagnole e portoghesi del Cinquecento, di cui recano l’impronta principalmente i territori più meridionali e, in particolare, la Terra del Fuoco.  L’arida isola è attraversata da una strada sterrata che segue la costa bassa e frastagliata, battuta dal vento nell’orizzonte grigio illuminato da rari raggi di sole. Nulla intorno, soltanto guanaco adagiati nella tundra. Non è difficile immaginare come potesse essere il territorio ai tempi della colonizzazione da parte degli spagnoli che, attirati dai giacimenti auriferi della zona, sterminarono del tutto la popolazione indigena, di cui oggi resta traccia soltanto nelle vecchie canoe e negli altri reperti esposti nel museo di Porvenir.  Una popolazione ai confini del mondo che viveva di pesca e di caccia, sfidando e vincendo i gelidi inverni australi; uomini che hanno vinto la forza della natura ma che nulla hanno potuto contro la barbarie selvaggia dell’uomo “civilizzato” che spinto dalla brama di ricchezza e di conquista ha ritenuto che la via più semplice fosse rappresentata dalla morte e dalla distruzione. D’altronde è il concetto stesso di “colonizzazione” che contiene in sé l’errore - e l’orrore - perché presuppone la volontà di supremazia attraverso l’espropriazione di terre altrui e la cancellazione di identità culturali e talora, come in questo caso, di un intero popolo.  E così, non sai se considerare come un tributo o come un atto di ipocrisia quella statua così espressiva che, al centro di Porvenir, ritrae un indigeno che impugna un’arma, con lo sguardo rassegnato e carico di dolore di chi ha perduto la sua terra ed il suo futuro.
L’isola, più sviluppata nella parte argentina grazie ad una politica di agevolazioni fiscali e pressoché disabitata nell’area cilena, è collegata al continente dallo Stretto di Magellano.
Lo Stretto, che ha rivestito in passato un ruolo strategico sia dal punto di vista  commerciale sia dal punto di vista politico e militare, è oggi una rotta commerciale secondaria, il cui traffico è mantenuto vivo per lo più dal turismo e dalle attività di estrazione del petrolio in Terra del Fuoco. Attività quest’ultima che stride fortemente con la politica di protezione ambientale adottata nella zona dal Governo e che ha portato, tra l’altro, all’istituzione, nel 2003, di un’area marina protetta.
Navigando nelle acque scure e ventose dello Stretto si raggiunge, sulla terra ferma,  Punta Arenas, sulla cui costa stormi di albatros e cormorani si affollano numerosi. Punta Arenas è una delle poche cittadine sviluppate della Patagonia Meridionale, punto di partenza per le spedizioni scientifiche nell’Antartide e avamposto commerciale la cui fortuna è legata all’estrazione di petrolio e gas naturale nonché all’esportazione di lana e carne ovina.  C’è vita e benessere in questo luogo  dove la modernità cerca di farsi strada insinuandosi nelle pieghe più conservatrici della società.


Se ci si addentra nel cuore della città, tra le case basse e colorate, inaspettatamente ci si trova dinanzi ad un edificio verde con l’intonaco scrostato su cui campeggia una scritta rossa che a grandi caratteri recita: “aquì se torturò”.  La struttura, denominata “El Palacio de las Sonrisas”, è stato il principale centro di tortura del SIM, il servizio di intelligenza militare, nella regione dei Magallanes, durante la dittatura di Pinochet nel delirante tentativo di cancellare la sinistra marxista. La struttura, in cui furono torturate almeno millecinquecento persone, è diventato oggi un centro culturale che promuove la vita e i diritti umani.  


Viaggiare attraverso la Patagonia nei mesi invernali, senza il velo della farsa estiva abilmente cucito dall’industria turistica, ti permette di cogliere anche le contraddittorietà e le fragilità di questa regione.
Sebbene essa viva, complessivamente una fase di rinascita e stabilizzazione,  soffre ancora di gravi disparità sociali ed economiche e non riesce ad affrancarsi dal dualismo tra progresso e arretratezza.
Per un verso Il territorio ed il clima inospitale ne hanno reso difficile tanto l’urbanizzazione e la creazione di collegamenti tra le aree rurali e i pochi grandi centri abitati determinando isolamento e alimentando le difficoltà di una crescita omogenea sul piano sia sociale che economico. Per altro verso la politica molto spesso ha adottato strategie che hanno danneggiato le fasce più deboli e le aree più isolate, con il risultato che, ancora oggi, più di seicentomila persone costrette a condizioni di estrema povertà. E d’inverno, quando i turisti, la confusione ed il rumore scompaiono, tutto ciò diventa particolarmente evidente. Allontanandosi dai pochi centri ricchi, come Puerto Varas e Puerto Montt nel Nord o Punta Arenas nel Sud, resta infatti un senso di profonda desolazione. Restano i  piccoli villaggi del Nord che si riducono spesso a null’altro che un’insegna, un minimarket ed un piccolo gruppo di case modestissime, separate le une dalle altre soltanto da rustiche staccionate di legno.  Resta Puerto Natales nel Sud con le sue strade deserte e infangate, i marciapiedi sporchi e lastricati di ghiaccio, le baracche di lamiera, sterpaglie e cumuli di immondizia pronta per essere bruciata; restano  i ristoranti chiusi, gli autobus malandati, i servizi ridotti, i centri di informazione inefficienti, gli abitanti chiusi in loro stessi e vagamente assopiti.
Numerose sono le campagne che inneggiano ad una crescita della regione e, se l’auspicio è che ciò possa tradursi in risultati concreti, la speranza maggiore è che il progresso e la modernità non cancellino quell’autenticità e quella spiritualità che ancora si respira in Patagonia in questi giorni  d’inverno.