"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

giovedì 14 aprile 2016

Reportage: Birmania


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Foto: copyright © 2016 Andrea Giuseppe Sanfilippo
Viaggiare oggi attraverso la Birmania significa andare alla scoperta di un paese in cui le tradizioni del passato ed un certo conservatorismo culturale si contrappongono ad una travolgente voglia di crescita e cambiamento, di cui si fa portavoce la fascia più giovane della popolazione.
Accanto alla vita tradizionale delle numerose tribù dislocate nelle aree più o meno remote del paese, dove ancora si cucina sul fuoco vivo e si abita in palafitte di bambù e paglia, c'è un gran fermento nelle scuole, nelle università e nei monasteri dove laici e religiosi portano avanti le proprie istanze d'innovazione.
Non è raro imbattersi in giovani che studiano per diventare educatori, animati dal desiderio di combattere l'abbandono dell'istruzione che per decenni ha afflitto il paese. E non è raro essere fermati per strada da ragazzi, laici o novizi che siano, desiderosi di confrontarsi o di esercitare il proprio inglese.
La nostra giovanissima guida, nello stato di Shan, con grande imbarazzo si scusava dell'ingente quantità di plastica che inquinava le rive dell'Inle Lake e le sue piantagioni di pomodori. "C'è ancora molto da fare nel nostro Paese" osservava con lo sguardo carico di energia e di voglia di migliorare; quella voglia che, purtroppo, cosi spesso manca nei giovani occidentali, talora del tutto indifferenti, talora rassegnati ad una società in caduta libera.
La Birmania, per quanto ancora intimidita da un passato di chiusura e negazione, esprime attraverso i suoi giovani il desiderio di raccontarsi al mondo e di aprirsi ad esso intessendo relazioni a vari livelli.
Come qualsiasi realtà in via di sviluppo, ne vive anche tutte le contraddizioni tanto sul piano economico quanto su quello socio-culturale.
Penso al tempo trascorso a Mandalay, punto di partenza per visitare alcune aree di interesse dell'omonima regione.
Non posso dire che passeggiare tra le strade di Mandalay sia stata un'esperienza del tutto piacevole in considerazione delle bande di cani randagi, del traffico senza regole e della coltre di smog che affaticava la respirazione. Ma ciò mi ha permesso di entrare nel cuore della città e studiarne gli abitanti, cosa che difficilmente sarei riuscita a fare se avessi utilizzato un taxi.
La prima cosa che mi ha colpito a Mandalay (cosi' come in precedenza a Yangon) è stato il traffico: auto, motorini e furgoni che, pur a velocità contenuta, si danno un gran da fare nell'animare la città in un traffico disordinato e incomprensibile. Che si tratti di auto di lusso, di furgoni sgangherati con il motore collocato all'esterno o di motorini anni Ottanta con a bordo famiglie di quattro persone, la regola è una ed una soltanto: suonare costantemente il clacson...per svoltare, per chiedere strada, o soltanto per avvisare un pedone o un altro mezzo del proprio arrivo. Per il resto, appare del tutto normale che il volante sia a destra, che la guida in strada sia parimenti a destra e che il sorpasso possa avvenire indifferentemente a destra o a sinistra. Ed altrettanto normale appare ciò che accade quando i pedoni si accingono ad attraversare: li vedi raccolti in gruppi più o meno corposi che si lanciano in un velocissimo slalom tra le auto nel tentativo di raggiungere incolumi il marciapiede opposto. Impresa peraltro complicata dall'ampiezza delle strade e dalla prassi di non dare precedenza, in nessun caso, alle persone a piedi (che siano anche donne, bambini o anziani).
Se tutto cio' è vero, è altrettanto vero che camminare per le vie delle città birmane trasmette anche un senso di profonda vitalità.  E' un risuonare di canti religiosi e di campanelle, di grida di bambini che giocano per strada e venditori che propongono ai passanti i propri prodotti.
La vendita per strada è peraltro uno degli aspetti tipici che si incontra per le vie delle città.
Decine di bancarelle minuscole affollano i marciapiedi, con su esposte merci di ogni tipo. Ed ancor più numerose sono le attività dedicate allo street-food. Che si tratti di un fornetto, di una pentola accesa su un braciere o di una vera e propria cucina all'aperto contornata di tavolini e sgabelli di plastica colorati, la vendita di cibo rappresenta uno dei business principali.
Ed è, in effetti, difficile resistere al profumo delle frittelle di gamberi e farina di riso o ai cosiddetti dolcetti degli sposi o ai morbidi e fragranti pani appena sfornati.
Che siano le sette del mattino o le dieci di sera ci sarà sempre una signora minuta, con le guance tinte di Thanakha e l'espressione seria, pronta a sfamarti.
La vita di molti Birmani è una vera e propria vita di strada. E' li che tutto si svolge e, qui più che altrove, vale il detto "casa e bottega".
Addossate al muro della stazione di Mandalay, si distendono file di localini dove, al giungere della sera, gli uomini si raccolgono per giocare a Juè, un tradizionale gioco di dadi, o per bere un bicchiere di liquore di palma, mentre negli spazi adiacenti le donne preparano la famiglia per la notte.
Una di esse stende le coperte sulla superficie di una piccola palafitta rialzata, le luci al neon rosse e blu che incorniciano l'immagine di Buddha appesa alla parete, mentre un'anziana signora guarda un programma alla TV.
Poco più in là un uomo nel sacco a pelo gioca con il figlioletto di pochi mesi issandolo in aria con le braccia.
A poca distanza, un gruppo di adolescenti raccolti intorno ad un braciere canta e suona la chitarra mentre in lontananza si sente l'abbaiare di alcuni cani randagi.
Ed è tutto normale. Questo è il loro ritmo di vita.
Sono poveri, poverissimi, ma nessuno ci si avvicina per chiedere soldi; al più, qualcuno incuriosito dalla nostra presenza ci saluta sorridendo.
Peraltro, mi stupisce sempre la reciproca curiosità; ci si osserva come animali di specie diverse, nel tentativo di cogliere cio' che ci accomuna e cio' che ci distingue.
E, più di tutte, mi intenerisce la reazione dei bambini.
Sulle scale di un tempio, ad Inwa, ho incontrato una famiglia con due bambine. La più piccina, quando mi ha vista, mi si è avvicinata con un largo sorriso e l'espressione divertita ed innocente dei suoi quattro anni. Il papà mi ha chiesto, secondo un'abitudine tipicamente orientale, se poteva scattarci una fotografia. Abbiamo fatto la foto, ci siamo scambiati ringraziamenti e saluti e, adesso in giro per l'Oriente, c'è una foto che ritrae me ed una bimba, abbracciata alle mie gambe, senza scarpette e la faccia da monella.
Quello che amo di questo popolo, dalla fattezze minute e delicate, è l'approccio profondamente umile e gentile con cui si pongono nei confronti del mondo, cosi' come mi intenerisce il loro lato estremamente romantico. Sui bus, nei negozi, nei ristoranti riecheggiano sistematicamente le note di canzoni sdolcinate. Che siano cover di canzoni americane o canzoni locali, la regola è una: largo alle emozioni!
Le città Birmane sono smog, spazzatura, case povere e cibo di strada. Eppure al tempo stesso vedi iniziare a spuntare come funghi ristoranti internazionali, abitazioni di lusso nuovissime e circondate di filo spinato. Le ragazze della "Birmania bene" vestono all'Occidentale, abbandonando le infradito per un paio di ballerine, il longyi (una sorta di sarong coloratissimo) per un paio di jeans. Tutte hanno lo smartphone e molte indossano al braccio borse di note marche europee.
Ma se questa è la vita nelle città, basta allontanarsi leggermente da esse per scoprire realtà in cui il tempo sembra scorrere più lentamente, villaggi dove la modernità, pur presente, tende ad affermarsi con maggiore difficoltà.
Penso a villaggi come quello di Inwa a poca distanza da Mandalay o alle tribù tra le montagne dello stato di Shan, regione del famoso Inle Lake.
Per raggiungere le tribu' che vivono tra le montagne occorre affrontare un cammino più o meno lungo attraverso sentieri che si snodano attraversano la giungla secca, una foresta che durante la stagione invernale diventa una distesa di erba gialla che ti copre fin sopra la testa e dove, a fatica, riesci a farti strada.
Quello stesso cammino viene compiuto ogni giorno dalle donne delle tribù per raggiungere i grandi mercati sulle rive del lago. Al mattino presto le puoi veder camminare in fila indiana, ciascuna con il copricapo colorato della propria etnia ed un grosso cesto sulla testa carico di merci da vendere. Molte portano con sé verdure, frutta e cereali; alcune propongono prodotti cucinati nelle proprie abitazioni; altre ancora portano con sé cesti carichi di fiori che saranno poi acquistati e portati dai devoti nei templi.
I mercati sono quanto di più vivace e colorato si possa immaginare. E quando arriva il primo pomeriggio, ciascuna di quelle donne incontrate al mattino ripone le proprie merci nei grossi cesti e ritorna, lungo i sentieri tortuosi, tra le proprie montagne.
Qui la popolazione vive ancora secondo le antiche tradizioni; ed anche se nelle loro case le ragazzine guardano i video musicali su cellulari di ultima generazione, le madri continuano ad indossare i tradizionali copricapo colorati e a tingere le guance con la polvere ottenuta dalla corteccia di thanakha che funge da cosmetico e filtro solare.
Abbiamo avuto la possibilità di visitare una di queste famiglie, di visitare la loro abitazione e spendere del tempo insieme.
Al termine di una ripida salita tra i canneti, si apre finalmente una valle stretta e ci troviamo davanti ad un recinto con degli animali, un orticello ed una palafitta di bambù.
Imitando l'austera padrona di casa che attendeva la nostra visita, togliamo le scarpe e la seguiamo lungo la stretta scala che porta all'interno dell'abitazione, interamente costruita in bambù.
Ci fa accomodare su una stuoia, mentre lei si reca in una stanza separata per preparare il pranzo.
Le sue bimbe ci guardano incuriosite e noi, con altrettanta curiosità, osserviamo l'abitazione in cui siamo stati accolti.
In un angolo della stanza, uno specchio, un catino per l'acqua ed una lastra con un tronchetto di thanakha arredano lo spazio dedicato alla toilette.
Accanto ad esso vediamo un altare dedicato a Buddha con luci al neon e candele, qualche fotografia ed un vecchio televisore. Accatastate in un altro angolo, le stuoie e le coperte per la notte. Soltanto la cucina è separata dal resto della casa ed è qui che le donne cucinano i loro pasti a base di riso, pollo e verdure utilizzando grossi pentoloni collocati su un braciere al centro della stanza.
Entriamo nella piccola cucina e osserviamo la madre intenta nelle sue attività.
Non c'è una lingua comune ed anche il linguaggio del corpo e la gestualità sono differenti.
Eppure riusciamo a capirci e a condividere insieme questo momento, cosi' intimo, immersi in un'atmosfera per noi surreale, quasi come se una macchina del tempo ci avesse permesso di tornare indietro di secoli.
E forse questa è una delle cose più belle del viaggiare: la possibilità di recuperare culture, esperienze ed emozioni che non abbiamo potuto vivere; e forse, più di tutto, la possibilità di imparare qualcosa da chi vive in un mondo ed in un modo diverso dal nostro. Perché di una cosa sono sempre più convinta e cioè che non è il progresso, cosi' come modernamente inteso, a rendere felice i popoli.
Ed è cosi che, ancora una volta, risalgo sul mio aereo e mi chiedo cosa augurare, per il futuro, a questo popolo minuto e gentile che mi ha ospitato con calore nelle scorse settimane.




giovedì 28 gennaio 2016

Viaggiare

(All rights reserved) Tornare da un viaggio, breve o lungo che sia, ti lascia sempre addosso una sensazione particolare.
Provo a riportare la mente agli ultimi viaggi, cercando di ricordare quelle sensazioni che mi hanno accompagnato durante il volo di ritorno. Sensazioni intense ed ogni volta profondamente diverse.

Ripenso alla Patagonia ed al trekking invernale nel Torres del Paine, con le bufere di neve e di grandine. Il silenzio surreale interrotto solo dal soffiare del vento. I picchi solitari tra le nubi.
E mi torna nel cuore quella sensazione di libertà infinita, di contatto profondo con la natura selvaggia, imperiosa, sovrana. E torna, sommessamente, anche il ricordo di quella malinconia che provai, seduta a scrivere nell'aeroporto di Punta Arenas, per quell'avventura appena vissuta e che avrei voluto durasse ancora un po'. Perché solo queste esperienze sono in grado di restituirti quel senso di semplicità e di autenticità di cui la vita di città cerca continuamente di derubarti.

Ripenso all'Oman e alla meravigliosa atmosfera del Medio Oriente. Alla voglia, in aeroporto, di imboccare di nuovo l'uscita e perderci tra i deserti battuti dal vento o tra i vicoli animati dei suq.
Se chiudo gli occhi, ritornano le basse case color sabbia, i forti, le oasi con le palme, il lungomare fiorito di Muscat, gli uomini con i loro abiti bianchi e inamidati, le donne con l'abaya da cui spuntavano lembi di abiti coloratissimi. Posso sentire di nuovo il profumo degli incensi e delle spezie, l'aroma fresco di un'acqua di colonia molto diffusa.
Quell'atmosfera quasi fiabesca ti faceva dimenticare per un attimo i contrasti tra Occidente e Medio Oriente, gli orrori in Siria ed Iraq, gli attentati, il fanatismo religioso, l'ignoranza drammatica di tanti occidentali, la pericolosità della politica di un Salvini o di un Trump.
Ed è cosi che mentre l'aereo si staccava da terra, con il cuore gonfio di emozioni per i ricordi di un viaggio indimenticabile, sentivo farsi parimenti strada l'amarezza per l'incapacità dell'uomo contemporaneo di mettere a frutto gli insegnamenti che avrebbe dovuto trarre da secoli di storia attraversati dalla guerra e dall'odio.
Perché tutto ciò che avrei voluto in quel momento e che vorrei tutt'ora è che il mondo riuscisse a cogliere la perfezione insita nelle differenze culturali ed il valore positivo e costruttivo del rispetto reciproco.

E poi c'è l'Africa con le sue contraddizioni. Ci vuole coraggio e molta onestà intellettuale nel valutare la propria esperienza di viaggio attraverso sette stati africani segnati dalla fame, dalla povertà e dalla discriminazione.
Ricordo bene lo scalo a Johannesburg durante il viaggio di ritorno, dove ci hanno accolto le luci scintillanti di un aeroporto che non aveva niente da invidiare all'Europa, con i suoi brand di lusso e le catene di fast food.
Una parte di me si sentiva 'in salvo' dopo i lunghi viaggi a bordo di bus sgangherati, le strade sterrate, le infrastrutture fatiscenti, la febbre alta. Ma un'altra parte di me si sentiva a disagio, quasi fosse d'improvviso un pesce fuor d'acqua e provasse vergogna per i propri pensieri. Le luci scintillanti quasi mi accecavano, i brand di lusso mi infastidivano ancora più del solito, per non parlare dei turisti chiassosi di ritorno dal loro 'pacchetto tutto incluso', che avrei desiderato sparissero assieme alle loro chiacchiere inutili su un precoce (quanto fasullo) 'mal d'africa'.
La mente non poteva fare a meno di oscillare tra il luogo in cui mi trovavo e quelli che avevo visitato nelle settimane precedenti, tra la vita che vivo nella mia comoda casa europea e quella degli uomini e delle donne che abitano i villaggi poverissimi e vivaci dello Zambia o i villaggi sconsolati e pieni di degrado del Mozambico. Mentre camminavo verso il mio gate cercavo un senso, cercavo di sanare dentro di me le contraddizioni del mondo e cercavo altresì di risolvere quel senso di colpa che si faceva strada ogni volta che pensavo 'per fortuna sto tornando a casa'.

Ed infine la Birmania, con la sua ingenuità e la voglia di futuro. Strana la sensazione nel lasciare questo paese, così diverso da ciò cui siamo abituati. Particolare nel suo genere anche rispetto all'Africa. Durante il viaggio di rientro, quando sono atterrata all'aeroporto di Doha, con i suoi bagni completamente automatizzati, le squadre di operai in guanti e mascherine a lucidare ogni angolo dell'immensa struttura e gli uomini con i loro abiti bianchi impeccabili, istintivamente ho pensato: 'bentornata a casa!'. Se pensi di essere tornata a casa quando ti trovi in un paese ad ancora innumerevoli ore di volo dall'Europa, beh allora vuol dire che hai visitato una terra davvero distante da te. Non solo geograficamente, ma anche culturalmente ed emotivamente.
La Birmania è tradizione radicata e corsa al futuro nello stesso tempo. E' spensieratezza ma anche voglia di riscatto dopo un passato difficile.
La Birmania esprime il tempo della transizione e del cambiamento ed è questa la sensazione che ti comunica e ti lascia addosso quando, seduta in aeroporto, attendi il tuo aereo verso quella che - correttamente o meno - ti ritrovi a chiamare 'modernità'.

Viaggi. Ognuno con le sue peculiarità. Ognuno con le sue contraddizioni. Viaggi durati troppo o troppo poco. In ogni caso, esperienze che hanno lasciato una traccia profonda, avendo avviato ciascuno a modo suo un percorso nella tua vita.
La Patagonia ha suggellato definitivamente l'amore per l'avventura e la natura selvaggia, l'Oman mi ha fatto scoprire la passione per il Medio Oriente ed il profondo rispetto per l'Islam. L'Africa mi ha portato a confrontarmi con gli aspetti più dolorosi del mondo e mi ha spinta a perseverare nella lotta contro le ingiustizie. La Birmania mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha fatto scoprire una cultura ancora radicata a tradizioni antiche, con i suoi villaggi di palafitte e i pasti cucinati sul fuoco vivo.
E, soprattutto, al termine di ogni viaggio sento che un nuovo tassello si è aggiunto nella conoscenza del mondo e, per riflesso, anche di me stessa.