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Foto: copyright © 2016 Andrea Giuseppe Sanfilippo
Amal manteneva pulito il suo angolo di strada.
Ogni mattina alle otto prendeva posto sul ponticello coperto in Via degli Olmi, appoggiava la sua borsa sul muretto accanto a lei, apriva uno sgabello su cui si sarebbe riposata nel corso della giornata e, armata di scopa e paletta, rimuoveva ogni rifiuto.
Non una carta, non un mozzicone di sigaretta sfuggivano al suo occhio attento.
Amal non poteva tollerare quel mondo sporco e disordinato e così carico di indifferenza, così diverso da ciò che le avevano promesso.
Durante il lungo viaggio che dalle sponde della Siria l’avrebbe portata in Italia, sognava di città e strade piene di fiori e colori. Immaginava un mondo che profumava di libertà e di rispetto. Raggomitolata nel suo mantello scuro, il calore di quei sogni l’aveva riscaldata durante i gelidi giorni di viaggio in cui la pioggia, le onde ed il vento le sferzavano con violenza il viso. Le avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di studiare, la possibilità di avere una casa. Le avevano promesso la pace, un miraggio per una giovane che d’improvviso era stata catapultata nell’orrore della guerra.
Lei aveva creduto ciecamente a quelle promesse, ma giunta in Italia i suoi sogni si erano trasformati in amara disillusione.
Sbarcò di notte sulle coste europee, ed insieme ad altre donne fu separata dagli uomini, caricata con forza su un camion e nascosta tra casse maleodoranti. Il mezzo correva su una strada tortuosa. Amal veniva sballottata tra le casse nei continui sobbalzi. La testa le girava, sentiva lo stomaco contorcersi in spasmi.
In una campagna desolata, dopo un’interminabile giornata di viaggio, il camion fermò la sua corsa.
Amal e le altre donne furono spinte in un casale abbandonato, guardato a vista da uomini armati.
All’interno della costruzione altre donne giacevano su materassi di fortuna. Amal chiese dove fossero e cosa stesse accadendo, ma in tutta risposta fu spinta via con insulti e schiaffi.
Prostituzione: ecco cosa le attendeva.
Amal si lasciò andare a terra sgomenta. Aveva lasciato l’orrore della guerra per qualcosa di ancor più ripugnante. Era terrorizzata, come terrorizzate erano le altre donne che avevano viaggiato con lei. Si strinsero le une alle altre contro il muro. Piangevano, si lamentavano, alcune pregavano a bassa voce quel dio da cui si sentivano abbandonate.
La notte stessa furono lasciate in una strada buia dove avrebbero dovuto attendere i loro clienti, uomini rozzi, senza dignità e senza rispetto.
Amal avrebbe voluto morire, essere inghiottita dall’asfalto nero.
Gli aguzzini che le tenevano prigioniere le avevano minacciate: se solo avessero tentato di fuggire o di chiedere aiuto avrebbero ucciso loro e le loro famiglie dall’altro lato del Mediterraneo.
Amal non aveva nessuno, era rimasta sola. Non aveva nulla da perdere.
Un’automobile le si accostò accanto, la costrinsero a salire.
Ma Amal non era sfuggita alla guerra e attraversato il mare per lasciare che la sua vita venisse ridotta in brandelli, il suo corpo e la sua mente profanati.
Appena l’auto si allontanò lei scongiurò l’uomo di lasciarla libera.
L’uomo la fissò per un instante e rimase incerto davanti allo sguardo implorante della giovane, ma il suo animo fu attraversato dall’intensità di quella supplica, e dal carico di dolore celato dietro quegli occhi.
Fu fortunata Amal quella notte.
L’auto si fermò. La ragazza, esitante, provò ad aprire lo sportello; l’uomo la guardò con aria incoraggiante.
Lei gli rivolse un ultimo sguardo di ringraziamento e cominciò a correre, quanto più veloce poteva.
Corse instancabilmente per ore e ore, riposando soltanto pochi minuti per volta.
Aveva paura di essere rintracciata dai suoi aguzzini o di essere fermata dalla polizia. Non aveva documenti, non aveva nulla con sé.
Stremata raggiunse una piccola cittadina. Iniziò a piovere. Lei continuò a vagare cercando riparo finché in lontananza vide un ponte coperto. Il Ponticello di Via degli Olmi.
E fu lì, sotto quel ponte che la ospitò in quella notte di pioggia, che ebbe inizio la sua avventura.
Arrivò il mattino, il sole era ormai alto e caldo mentre Amal si stiracchiava; le ossa le dolevano per l’umidità e la posizione rannicchiata che aveva assunto durante il sonno. Stropicciò gli occhi e vide dinanzi a sé due stivaloni marroni. Uno di quegli stivali batteva ritmicamente sulle vecchie maioliche del ponte.
Alzò lo sguardo spaventata e vide davanti a sé un donnone che le sorrideva con aria allegra e compiaciuta. A mento alto, la donna esibiva con una certa vanità i suoi capelli bianchi raccolti in un morbido chignon e spessi occhiali dalla montatura da gatto che incorniciavano occhi vivaci e briosi. Dal cappotto di lana verde scuro sbucava un lembo d’abito del colore delle susine mature mentre un foulard a righe le avvolgeva lezioso il collo.
“Oh, finalmente ci siamo svegliate!” esclamò con un tono di finto rimprovero. Ed aggiunse: “Sono ore che sono qui ad aspettare che ti svegli. Ti sembra l’ora?”
“Guarda!” proseguì sventolandole sotto il naso un sacchetto di carta che rilasciò nell’aria un profumo dolce e fragrante, “ho comprato anche la colazione! Ed è stato difficile resistere dal mangiare anche la tua parte! Ma ecco, è ancora tutto qui” aggiunse porgendole il sacchetto.
Amal la guardava incerta, frastornata dalla stanchezza e dalla voce squillante della donna. Le ispirava simpatia, ma poteva fidarsi? Buonsenso ed educazione le suggerivano di non accettare, ma lo stomaco non volle sentir ragioni.
“Forza!” esclamò impaziente la donna “che qui si fredda tutto!”
A quel punto Amal buttò all’aria quel che le avevano insegnato sull’accettare il cibo da estranei ed allungò la mano ad afferrare il sacchetto. Lo aprii e rimase inebriata dal delizioso profumo dei dolci, piccole e morbide brioches ripiene di marmellata alle more. Le mangiò lentamente assaporando ogni singolo boccone e sperando non finissero mai. Non aveva mai mangiato un dolce così buono.
Quando finì guardò la donna con un’aria mista di gratitudine e curiosità.
“Bene” disse l’anziana “adesso che hai fatto colazione possiamo presentarci. Io sono Eleide, mentre tu sei Amal. Vero?”
La ragazza la guardò d’improvviso spaventata e si strinse contro il muro. L’avevano trovata pensò! E forse l’avevano appena avvelenata con quelle brioches. Un lampo di terrore attraversò il suo sguardo, ma Eleide intervenne subito a tranquillizzarla.
“Non devi aver paura Amal!” disse senza perdere il suo tono allegro e vagamente canzonatorio. “Sapevo che saresti arrivata. Avevo percepito il tuo arrivo quando eri ancora al di là del Mediterraneo e sapevo che in una notte di pioggia ti avrei trovata qui.”
Amal la guardava a bocca aperta ed occhi sgranati. Stava sognando? “Ma non capisco, tu…” balbettò Amal.
“Non c’è bisogno di capire. Poco importa chi sia io. Ciò che importa è quel che ti attende, ma anche questo lo capirai a tempo debito. Per ora devi sapere soltanto che questo è il tuo posto e che qui sarai il sicuro. Ciao Amal, abbi cura di te!”. E così concludendo Eleide si allontanò.
Amal rimase per qualche minuto confusa, le sembrava impossibile che quell’incontro si fosse verificato davvero. Aveva avuto un’allucinazione? Il viaggio, la stanchezza, la paura forse le stavano giocando un brutto scherzo.
Tuttavia le briciole di brioches sul suo vestito non erano fantasia. Ma allora chi era quella donna e cosa aveva voluto dire con quelle parole? Decise di non pensarci, ma dentro di sé si sentiva rasserenata al pensiero che quello potesse essere il “suo posto sicuro”.
Si alzò, si guardò intorno e pensò che se quella piccola città e quel ponte dovevano essere il suo rifugio, occorreva trovare un tetto per la notte. Presto sarebbe arrivato l’inverno e avrebbe rischiato di morire assiderata. Raccolse la piccola borsa che era riuscita a salvare durante il lungo viaggio e, con un pizzico di timore, iniziò a scendere le scale che dal ponte conducevano verso la via principale che aveva percorso la notte precedente sotto la pioggia.
Com’era diversa la cittadina adesso, illuminata dai raggi caldi del sole, mentre i suoi abitanti pian piano riprendevano le attività quotidiane: mamme che accompagnavano bimbi dagli zainetti colorati all’ingresso delle scuole, negozianti che lustravano le vetrine o che si godevano qualche raggio di sole in attesa dei clienti, ritardatari che si affrettavano lungo i marciapiedi.
Amal camminò per ore mentre il tepore di quella giornata di fine settembre le restituiva forze ed energia. Vagò per i vicoli stretti della città, tra i palazzi di pietra grigia dai cui balconi pendevano piante fiorite.
Ogni tanto incrociava qualche sguardo, a volte carico d’empatia, a volte di disgusto e disapprovazione.
Si sentiva così inappropriata, così sola. Lontana da tutto, lontana da ciò che era stata fino a quel momento. Guardò la propria immagine riflessa in una vetrina e provò vergogna.
Ma non era lei a doversi vergognare; non doveva appartenerle quel sentimento che avrebbe dovuto assalire piuttosto chi le aveva distrutto i sogni e le speranze, che l’aveva costretta ad abbandonare la propria patria e a ricominciare altrove. Forse l’Occidente non era ciò che le era stato promesso. Aveva trovato una strada buia al posto di una casa, un mestiere raccapricciante in luogo di un lavoro onesto, nemici pericolosi anziché una nuova famiglia.
Stava ormai calando il buio ed Amal non riusciva a trovare un luogo in cui dormire. Presa dalla stanchezza si adagiò su una panchina e cadde in un sonno profondo. La notte fu densa di incubi. Fotogrammi delle fiamme che avvolgevano la sua casa si accavallavano a spezzoni del viaggio in mare, al suo vagare fino alla piccola città. Nel sonno pianse, si agitò.
Al mattino fu svegliata da un cane che le scodinzolava festoso attorno. Ebbe un sussulto, veloce si alzò.
Vide una fontana e si lavò il viso. Era sconvolta, aveva paura, si sentiva disorientata. Non poteva più contare su nessuno. Ma lei non si sarebbe arresa, avrebbe dovuto dare un senso all’essere l’unica sopravvissuta della sua famiglia, spazzata via durante il violento attacco al suo villaggio.
Il suo nome significava speranza e lei non poteva smettere di sperare. Doveva aggrapparsi a qualcosa.
Decise che le parole di Eleide dovevano avere necessariamente un senso.
Si diresse verso il ponticello, seguita dal simpatico randagio. Forse quello era davvero il suo luogo sicuro e forse lì l’avrebbe attesa, in qualche modo, il suo futuro.
Raggiunse la scalinata che conduceva al ponte. Accanto ad essa vide uno sgabello e lo prese con sé per farne la sua sedia. Salì i gradini e lo posizionò al centro del ponte, prese posto e appoggiò le spalle alla parete. Lo sgabello era piccolo, scomodo, ma sentiva che le conferisse maggiore dignità.
“E adesso?” si chiese. “Adesso aspetto, anche se non so esattamente cosa aspettare” pensò tra sé.
Non trascorse molto tempo che un passante lasciò cadere distrattamente qualche moneta accanto a lei. Per un istante pensò che le avesse perse ed era pronta a chiamarlo e riconsegnarle quando un altro passante le lasciò un’altra monetina. E poi un altro ed un altro ancora. Amal arrossì profondamente. Non intendeva chiedere l’elemosina. Guardò le monetine mentre lo stomaco gorgogliava affamato.
“Va bene” si disse “utilizzerò questi soldi per acquistare del cibo, ma io non voglio chiedere la carità a nessuno: questi soldi me li devo guadagnare.”
Si guardò attorno in cerca di idee. Aveva già notato con fastidio la gran quantità di immondizia che giaceva sulle scale e sulle maioliche impolverate. Ecco! Avrebbe lustrato il ponte e la scalinata fino a far sparire ogni granello di polvere. Vide accanto ad un bidone in Via degli Olmi una scopa ed una paletta e fu così che, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti, cominciò a rimuovere la spazzatura.
Soltanto quando ogni foglio di carta appallottolato, ogni lattina ed ogni cicca furono sparite decise che poteva ritenersi soddisfatta. E soltanto allora andò ad acquistare del cibo e dell’acqua; non mangiava dalla mattina precedente ed era davvero affamata.
Dopo il frugale pranzo ritornò alla sua postazione. Era incredibile come nel giro di un’ora il ponte fosse di nuovo sporco. Eppure c’erano i cestini per l’immondizia. Perché non usarli? Quanta indifferenza, pensò tra sé la ragazza, prendendo nuovamente scopa e paletta e rimettendosi all’opera.
Amal trascorse in questo modo quel giorno e i giorni che seguirono. Le notti, invece, le trascorreva in un piccolo cantuccio sotto il ponte. Era nascosto, si sentiva sicura. Il nuovo amico a quattro zampe le faceva compagnia. Al mattino ciascuno prendeva la propria strada per poi ritrovarsi al tramonto e, nelle giornate in cui Amal riusciva a guadagnare abbastanza per comprare del cibo, divideva con lui quel che riusciva ad acquistare.
Passarono i mesi e la ragazza divenne una presenza normale nel quartiere, i passanti la salutavano, qualcuno si fermava a chiacchierare con lei, qualcuno le offriva del cibo o degli abiti caldi. Soltanto di Eleide neanche l’ombra. Forse era stato davvero solo un sogno.
Ad Amal piaceva guardar passare tutte quelle persone, immaginare i loro pensieri mentre si affrettavano diretti chissà dove e chissà a far cosa. Immaginava le loro vite e i loro desideri ed immaginava come sarebbe stato poterli sentire e magari realizzare quelli più meritevoli.
Anche Amal aveva un desiderio: il desiderio inespresso di ritrovare una vita normale e dignitosa; e proprio quando la speranza aveva cominciato lentamente ad affievolirsi, qualcuno quel desiderio lo realizzò.
L’inverno successivo a quello del suo arrivo nella cittadina fu molto rigido; da settimane la temperatura non superava lo zero. Amal si ammalò e per diversi giorni rimase rintanata nel suo cantuccio sotto il ponte, con la sola compagnia dell’allegro e affettuoso randagio.
Una mattina, finalmente, si sentì meglio ed anche il sole mandava tiepidi raggi. Amal uscì dal suo riparo e si avviò verso la strada principale e poi da lì si addentrò in alcuni vicoli che non aveva mai percorso.
Da una pasticceria le arrivò il profumo di brioches appena sfornate: brioches alle more! Non poteva sbagliarsi: era proprio il profumo delle brioches che le aveva portato Eleide. Amal la raggiunse e rimase con il naso attaccato alla vetrina incantata dai grandi vassoi argentati su cui troneggiavano dolcetti, torte e biscotti. La pasticcera dall’interno la guardò e le fece cenno di entrare. Amal esitò un attimo, poi spinse la porta facendo tintinnare una campanella dorata.
“Vieni avanti!” la incoraggiò la donna con aria affabile.
Amal non parlava, non sapeva cosa dire.
Parlò per lei la donna. “Hai l’aria di chi ha passato una brutta avventura. Siedi, mentre preparo un thè.”
Amal si guardò in uno specchio attaccato alla parete dietro al bancone. Aveva davvero un pessimo aspetto, i capelli arruffati, le occhiaie, le scarpe infangate ed il suo maglione strappato sul braccio. Arrossì e provò a nascondere almeno lo strappo.
La signora la guardò e sorrise. “Non devi vergognarti, sai, a tutti può essere successo di vivere un momento difficile.”
La donna lesse nello sguardo della ragazza una profonda sofferenza e la invitò a sedersi con un gesto della mano. Amal prese posto davanti a lei mentre la signora versava ad entrambe una tazza di thè al gelsomino.
Che profumo delicato aveva quel thè. Ad Amal tornarono in mente i pomeriggi in cui da bambina giocava nel cortile terroso della sua abitazione mentre dalla finestra aperta della cucina, sita al pianterreno, le giungeva quello stesso aroma. Respirò a fondo, chiuse per un istante gli occhi e per quell’istante le sembrò d’esser tornata a casa, d’esser tornata bambina, quando la Siria era un paese in pace e quando tutta la sua famiglia la circondava riempiendola d’affetto.
Riaprì gli occhi, la donna la guardava con dolcezza. Aveva grandi occhi chiari e capelli morbidi che le incorniciavano il viso tondo; un grembiule a righe beige e rosa copriva una corporatura generosa. “Io mi chiamo Ilda. Qual è il tuo nome?” chiese la donna.
“Amal” rispose la ragazza.
“Ti va di parlarmi di te? Hai l’aria di chi deve aver sofferto molto” disse Ilda prendendo un sorso di thè.
Amal strinse tra le mani la tazza calda, inspirò e cominciò. Parlò della sua vita felice prima della guerra, una vita in un piccolo villaggio vicino Aleppo; ricordò la sua terra che profumava di spezie ed incenso, la sua famiglia numerosa e allegra, i pomeriggi trascorsi a cucire i tradizionali scialle dalle tinte intense e vivaci. E ricordò la paura nei primi giorni di disordini, di attacchi, ricordò il suo villaggio saccheggiato, le fiamme, la violenza, la distruzione, la sua famiglia sterminata. Si era salvata soltanto lei. Quel giorno era ad Aleppo a comprare delle stoffe. Nonostante la paura e le difficoltà di quelle settimane, cercava di continuare a vivere la propria vita, ma quel giorno la violenza e la crudeltà umana avevano cancellato ogni possibilità di normalità.
Era al mercato quando si diffuse la notizia che il suo villaggio era stato attaccato e quando vi fece ritorno non ne restava più nulla. L’orrore, lo sgomento ed il dolore furono tali che dai suoi occhi per giorni non scese neanche una lacrima. Era bloccata come in un fotogramma. Era ancora lì ferma, immobile, davanti a ciò che restava della sua casa data alle fiamme, i corpi dilaniati della sua famiglia, l’odore del fuoco. Restava imbambolata, lo sguardo perso nel vuoto, mentre il vento soffiava portandole il pianto disperato dei bambini rimasti orfani, i lamenti strazianti di chi, come lei, aveva perso tutto.
I ricordi, la vita, il futuro. Nulla più restava e lei avrebbe voluto esser morta, come i suoi genitori, le sue sorelle e i suoi fratelli. Ma era condannata a vivere in una realtà violata in cui lei non era più in grado di riconoscere se stessa. Non restava che partire, scappar via lontano. Quante volte le avevano parlato dell’Occidente, quante volte aveva sognato di viaggiare e scoprire quei luoghi che profumavano di libertà. Come ogni giovane ragazza ne era affascinata.
In quel periodo sempre più famiglie lasciavano la Siria in cerca di salvezza: alcuni cercavano rifugio nei paesi vicini; caricavano sui loro mezzi intere generazioni, casse di ricordi e varcavano i confini sperando di trovare una possibilità di sopravvivenza. Altri, per lo più giovani, si lasciavano tentare da uomini senza scrupoli che con la promessa di una vita migliore li trasportavano, in cambio di cifre altissime, sulle coste dell’Europa.
Nulla più che trafficanti di uomini e di sogni. Anche Amal aveva ceduto a quell’illusione e ne era rimasta scottata. Adesso era approdata in questa piccola città, dove stava provando a ritrovare se stessa.
Quando la ragazza terminò il suo racconto, Ilda la guardava con occhi lucidi.
“Amal” disse “la tua storia è davvero triste ed è terribile pensare che purtroppo accomuna così tante persone. Nessuno di noi né qui né altrove potrà restituirti il tuo paese e la tua famiglia, ma questa è una piccola città e sono convinta che potrai trovare un po’ di pace. Dal canto mio farò quel che posso per aiutarti. Puoi venire qui ogni mattina e avrai per te quanto necessario per nutrirti. Hai un posto dove dormire? Intendo un posto con un tetto.”
Amal scosse il capo.
Ilda, dopo aver riflettuto qualche minuto, disse: “Vieni, mi è venuta un’idea.”
Si alzò e, preso un mazzo di chiavi accanto alla cassa, fece segno alla ragazza di seguirla. Uscirono dal negozio ed entrando in un vicoletto ad esso adiacente percorsero qualche metro prima di fermarsi davanti ad una piccola porta di legno. Ilda infilò la chiave nella serratura e la porta, cigolando leggermente, si aprì.
“Ecco, questa è una piccola stanza che avevamo creato anni fa: serviva da appoggio per un ragazzo che ci aiutava in pasticceria. E’ piccola ma c’è un letto, un bagno ed una finestra. Lì in fondo c’è anche un piccolo fornelletto elettrico. Se ti va puoi stare qui. Certo occorre dare una bella pulita. Questo locale è rimasto chiuso per anni, ma potrà diventare accogliente” disse sorridendo.
Amal si guardò attorno: “Io…non posso accettare… non saprei come pagare…”
“Non ti preoccupare” rispose Ilda “questo è quello che io posso fare per te e i soldi non mi interessano. Questa stanza non occorre a nessuno e mi fa piacere poterti aiutare. Se vorrai potrai darmi una mano in pasticceria, sono rimasta sola ormai e un po’ di aiuto e di compagnia mi faranno piacere! Potrò insegnarti le mie ricette e tu potrai insegnarmi a preparare i dolci della tua terra!” disse con entusiasmo.
“Non so come ringraziarti. Davvero!” disse Amal con il cuore e lo sguardo colmi di gratitudine.
“Non serve ringraziarmi cara ragazza, noi tutti siamo responsabili di ciò che accade nel mondo, anche a migliaia di chilometri dalle nostre case e, quando possiamo, dobbiamo provare a porvi rimedio dando il nostro aiuto.”
Amal, il volto rigato da lacrime di felicità, strinse la mano della donna. Adesso anche lei aveva una casa, un lavoro e un giorno, chissà, avrebbe incontrato qualcuno di speciale con cui condividere la sua vita e costruire una famiglia.
Mentre rientravano in pasticceria, Amal intravide in lontananza un grosso cappotto verde ed un foulard a righe: da lontano Eleide, appoggiata ad un lampione, sorrideva soddisfatta.
L’orrore della guerra aveva cancellato tutto, aveva cancellato la terra ed il passato di Amal, ma non poteva cancellare i buoni sentimenti di chi ancora credeva nella solidarietà. E soprattutto non poteva cancellare la speranza in un mondo migliore.
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