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Le note di una vecchia canzone napoletana riecheggiavano soffuse nella sala ormai vuota, una musica d’altri tempi che si mescolava al vento leggero che agitava le tende di seta portando con sé il profumo delicato della notte. Anche gli ultimi ospiti avevano lasciato l’elegante palazzo di Santa Lucia.
Giulia appoggiò le braccia nude sul marmo fresco della grande finestra che dava sul golfo addormentato, soltanto il chiarore delle stelle e delle lontane lampare dei pescatori ad illuminare la distesa d’acqua che si muoveva pigra. La giovane respirò a fondo l’aria densa di salsedine e, lasciandosi cullare dalle note di sottofondo, chiuse gli occhi.
Era stata una delle rare volte in cui Giulia, incoraggiata dal maestro, aveva esposto i propri dipinti e non si aspettava tanto successo tra gli invitati. Era riuscita a vendere anche alcune tele, anche se ad un prezzo molto inferiore al loro valore.
Per lei, così timida e schiva, era stata una battaglia prima di tutto interiore decidere di presentare al pubblico le proprie opere; e come se non bastasse aveva dovuto combattere a lungo con il padre che, pur avendo egli stesso promosso nella figlia l’amore per la cultura in ogni sua forma, non aveva mai accettato l’idea che la ragazza amasse la pittura al punto da voler rivolgere ad essa ogni sforzo. Il padre, nella vana speranza di disincentivare la tendenza artistica della giovane, era giunto persino a negarle i fondi per l’Accademia e per l’acquisto dei materiali necessari per la pittura.
Giulia, tuttavia, non si era mai data per vinta e, anche grazie all’aiuto della sorella maggiore, era riuscita ad avere sempre a disposizione grandi tele da far vivere con il tocco di tempere ed oli.
E così non era raro incontrarla sulle scale della Chiesa di Sant’Antonio intenta a tratteggiare sagome di alberi e nuvole, a tradurre in colore attraverso pennellate brevi e decise il profumo dei fiori o il moto armonioso delle onde del mare; così come non era raro riconoscere il suo cappotto verde tra i vicoli dei quartieri spagnoli, assorta nel trasporre sulla sua tela il dolore e, allo stesso tempo, la sorprendente vitalità di quel mondo a sé, stretto tra il lungomare e la collina del Vomero.
Il dipingere non era, per Giulia, un esercizio di sterile riproduzione del mondo né un disperato tentativo introspettivo. Per lei la pittura rappresentava uno strumento di ricerca e cattura di un segnale di ottimismo in un’epoca alla deriva. E questo era quel che si poteva cogliere negli accesi contrasti di colore che sapevano di vita e di morte, nelle pennellate incisive che sfumavano in tocchi di colore leggero racchiuso in forme quasi impalpabili.
Eppure, non era solo la sua timidezza e la ferma opposizione del padre ad ostacolare il percorso artistico della giovane. Giulia si trovava a combattere contro una società in caduta libera, in cui l’arte si svuotava di contenuto e diventava, nel migliore dei casi, eccesso di sperimentazione e, nel peggiore, sterile e volgare provocazione.
Allo stesso tempo Giulia si trovava a fare i conti, insieme alle compagne dell’Accademia, con un anacronistico ma resistentissimo scetticismo verso la pittura femminile, che chiudeva loro le porte delle manifestazioni più rilevanti. Condividendo un’esperienza comune a molte altre donne, la giovane si confrontava difatti con le difficoltà che nascevano da una netta prevalenza maschile nel mondo della pittura, un mondo dove soltanto gli uomini sembravano degni di reale credibilità, quasi che lo svolgimento professionale dell’arte pittorica potesse essere considerato quale loro esclusivo appannaggio.
Sulla scia di queste riflessioni, i suoi pensieri andarono ad una pittrice, nata a Venezia nella prima metà dell’Ottocento e napoletana d’adozione per i lunghi anni ivi trascorsi. Elda Genovesi era la donna e pittrice che, attraversando quasi un secolo di storia e di vita, aveva celebrato l’universo femminile nelle sue molte forme e che, con il suo approccio grintoso e vitale, aveva vinto la propria battaglia riuscendo a vivere d’arte in un ambiente ed in un’epoca per tanti aspetti ancora ostili. In un mondo dominato dal conservatorismo culturale dell’Accademia da un lato e dal vuoto perbenismo della nobiltà dall’altro, la Genovesi aveva rappresentato una rara quanto pregevole eccezione. E a lei si era sempre ispirata Giulia nei momenti di maggiore sconforto.
La giovane era assorta in questi pensieri quando, d’improvviso, avvertì la brezza trasformarsi in un brivido leggero sulle spalle nude, mentre lenta si levava una voce femminile ad accompagnare, quasi in un sussurro, le note che dall’impianto stereo si liberavano nell’aria.
Giulia si guardò attorno, ma non vi era nessuno accanto a lei nella stanza, né alcuno degli ospiti sembrava essersi trattenuto nel cortile. Sporse leggermente il busto fuori dalla finestra, spingendo lo sguardo nelle anse meno illuminate del giardino.
In un angolo, sulla panca sotto la grande magnolia, scorse una donna dai lineamenti non più giovani che, avvolta in un abito azzurro, le sorrideva. Giulia la guardò incuriosita, cogliendo in quel volto sembianze familiari.
La donna, con un cenno della mano, invitò la giovane a raggiungerla in giardino. Giulia non ebbe esitazione, scese veloce le scale e, quando si ritrovò dinanzi alla donna, non ebbe dubbi: si trattava proprio della Genovesi.
«Vieni, siedi accanto a me!» la esortò quest’ultima con voce allegra.
Giulia la guardò incredula, ma accolse l’invito e prese posto accanto a lei.
La Genovesi volse lo sguardo verso Giulia ed esclamò sorridendo: «I tuoi quadri sono piaciuti!»
Con una spontaneità che non le sarebbe appartenuta in altre circostanze e senza alcun timore, Giulia rispose: «E’ vero e questo mi rende felice».
«Ma c’è qualcosa che ti turba, vero?» chiese la donna.
«La pittura fa parte del mio modo di essere, contribuisce a definirmi e avrei difficoltà ad immaginare una vita senza tele e colori. Ma mi addolora la percezione che non ci sia davvero spazio per l’arte, almeno non secondo il mio modo di intenderla» rispose Giulia malinconica.
La giovane si fermò un istante come a raccogliere i pensieri, riprendendo poi con maggior vigore: «Viviamo nella celebrazione dell’inutile, in un mondo in cui chiunque reclama per sé il titolo di artista, circondato da una platea acerba o ignorante che avvalora la legittimità di questa pretesa! E forse ciò che mi addolora di più è la battaglia che ci ritroviamo a combattere quotidianamente contro una società che diventa sempre più meschina e violenta; una società che arriva a ripudiare e distruggere l’arte ogni volta in cui sia portatrice di valori non condivisi. Così come mi sembra pura follia che le donne, certo in Oriente più che qui, debbano ancora accontentarsi di un ruolo secondario in qualcosa che è l’espressione di sé e della propria visione del mondo, come qualsiasi altra arte!»
La Genovesi sospirò: «Giulia, quella grettezza che oggi ti scandalizza è sempre esistita: rivendicare come arte ciò che non lo è; distruggere ciò che non si capisce o condivide; disprezzare o ignorare ciò che non fa parte della propria tradizione e dei propri costumi sociali; o ancora, tentare di fermare il tempo ed il progresso culturale. Tutto questo fa parte dell’uomo e della sua chiusura mentale. Ed è questa chiusura, la difficoltà di aprirsi al nuovo e al diverso ad aver ostacolato anche la pittura femminile. Quel che oggi accade in Cina o in Afganistan è quello che, sia pure in forme diverse, hanno vissuto le pittrici in Europa nei secoli scorsi. Ti parlo di tempi in cui le Accademie erano precluse alle donne ed in cui la pittura femminile era considerata soltanto un aspetto dell’educazione o un semplice passatempo.»
«Certo, ma a che punto siamo davvero arrivati oggi? Anche se nei musei, nelle sovrintendenze e in genere nel mondo dell’arte, molte donne riescono a farsi strada con successo, ho la sensazione che una reale parità non esista ancora! D’altra parte, la necessità di parlare continuamente di parità non significa forse ammetterne l’inesistenza?»
«Lo so come ti senti mia cara e, credimi, la tua frustrazione è comune a tutti coloro che hanno il talento e la sensibilità di comprendere cosa sia l’arte. Prova a guardare indietro, Giulia. Pensi che la vita sia stata facile per me? Pensi che lo sia stata per la Gentileschi o la Frai o per Suzanne Valadon, giusto per fare qualche esempio? Per tutte noi portare avanti la nostra passione ha implicato sacrifici.
Ha significato fare i conti con una critica che ci ha sempre relegato nel dilettantismo, anche quando riteneva che i nostri quadri avessero spessore artistico. E pensa anche a tutte le pittrici che sono riuscite a guadagnare un piccolo spazio di fama soltanto vivendo della luce riflessa di mariti ben più noti.»
Giulia tacque per qualche istante, poi disse con tristezza: «Ho sempre cercato di non arrendermi e di andare avanti per la mia strada, ma a volte ho la sensazione che sia impossibile far sentire davvero la mia voce.»
«Dammi la mano» disse la Genovesi, alzandosi in piedi.
«Voglio mostrarti qualcosa.»
Giulia guardò la mano tesa verso di lei e, con un pizzico di esitazione, la strinse nella propria. D’improvviso il giardino, il palazzo e le lampare dei pescatori scomparvero lasciando spazio ad un tempo e ad un luogo diversi.
Giulia riconobbe l’ampia sala del Gambrinus, con i suoi lampadari luccicanti, i tavoli tondi con le sedie rivestite di seta rossa, le statue e i dipinti ad arricchire le pareti. Poteva avvertire anche l’intenso aroma del caffè ed il profumo fragrante delle sfogliate alla crema.
In una sala scorse dei cavalletti su cui riconobbe alcuni tra i più celebri dipinti della Genovesi. Uomini e donne, elegantemente vestiti, si muovevano tra di essi, chiacchierando e sorridendo.
Una grande tela, addossata ad una delle pareti della sala, attirò la sua attenzione. Non l’aveva mai vista, né esposta nei musei né proposta nei libri d’arte. Ritraeva una scena di battaglia: in un villaggio di campagna, uomini armati si lanciavano l’uno contro l’altro in uno scontro acceso, mentre una nuvola di polvere si sollevava nell’aria, mescolandosi alle nuvole basse che oscuravano il sole che tentava di far capolino dietro alle colline. In primo piano, due bambini stretti accucciati al suolo, stretti in un abbraccio terrorizzato, gli occhi serrati e le mani a proteggere le orecchie dalle grida e dagli spari.
Giulia rimase colpita da quel paesaggio e da quei volti dall’espressione cosi intensa da sembrare reali. La giovane si sentì rapita, le sembrava di poter sentire l’odore intenso di polvere penetrare nelle narici, di udire le urla soffocate dei soldati che cadevano al suolo insanguinati. Poteva percepire il terrore impresso sul volto dei bambini; avrebbe quasi voluto allungare una mano e strapparli via da quella scena, portandoli al sicuro.
Una voce la riportò alla realtà. Accanto al quadro, una Genovesi ancora giovane descriveva ad un piccolo gruppo di persone le ragioni che l’avevano portata a dipingere quella scena. La pittrice, ragazzina, si era ritrovata ad assistere impotente ad una cruenta battaglia durante le guerre d’indipendenza, che l’aveva segnata in profondità.
Il pubblico esprimeva compiaciuto il proprio apprezzamento per la tensione emotiva del quadro, per l’espressività dei volti e per l’eccellente uso dei colori, quando un uomo, con monocolo e fazzoletto rosso nel taschino, si avvicinò alla grande tela, esclamando con aria sprezzante: «Quanti commenti lusinghieri! E’ facile credersi grandi artisti quando a giudicare le proprie opere è un pubblico compiacente o che ignora la vera arte!»
Nella sala calò un silenzio carico di imbarazzo. L’uomo era un celebre critico d’arte, noto per i commenti sfrontati, ruvidi e per l’acceso maschilismo. Elda non reagì e l’uomo ne approfittò per proseguire nel proprio attacco: «Cosa crede signorina? Che sia sufficiente l’uso di colori scuri per riflettere la tragedia della guerra? E le sembra forse che in questo quadro ci sia armonia nelle proporzioni e nelle forme? E’ evidente mia cara, che lei non ha alcuna attitudine nel dipingere grandi tele. D’altronde è noto che soltanto i grandi possano cimentarsi in simili imprese. In fin dei conti, quante donne hanno osato approcciarsi a lavori di questo tipo? Ascolti il mio consiglio, faccia come tutte le altre signore: si dedichi alle miniature, alle nature morte e lasci la pittura storica a chi è in grado di confrontarsi con questi temi e con tele di simili dimensioni. Il rischio, diversamente, è quello di scadere nella mediocrità. E la pittura non ha bisogno di mediocrità» disse sottolineando le ultime parole con un sorriso tagliente.
Elda abbassò lo sguardo, il viso arrossato dalla vergogna e dalla rabbia. Avrebbe voluto gridargli di andarsene, di lasciare quella sala dove non aveva alcun diritto di entrare vomitando insulti e cattiverie. Un uomo che non era in grado di guardare oltre la punta del proprio naso e che doveva la propria posizione alla protezione della famiglia reale e al conservatorismo che ancora resisteva nella società di quegli anni. Una società in cui la donna era relegata all’ambiente domestico dove le era concesso dipingere scene ritenute ad essa consone, la maternità, i giochi tra bambini, momenti della vita quotidiana.
Ma serrò stretti i pugni e tacque, consapevole che se avesse tentato di difendere i propri quadri e la propria dignità contro gli insulti di quell’uomo, avrebbe sortito l’effetto opposto, vanificando del tutto la possibilità di accedere ai più rinomati salotti del regno.
La piccola folla che la circondava si disperse nella sala in un silenzio imbarazzato, lasciando la giovane Elda sola e con il cuore in pezzi.
In quel momento Giulia si ritrovò catapultata in un nuovo luogo. Si trovava in una stanza scura, con il tipico odore pungente della trementina. Da una porta giungeva una luce soffusa; la giovane vi si avvicinò e vide Elda singhiozzare. Appoggiata alla parete c’era la grande tela che aveva visto al Gambrinus.
Vide Elda afferrare un punteruolo e distruggere ciò che con quelle stesse mani aveva creato, accasciandosi poi al suolo in un pianto disperato. Giulia provò un intenso dolore a quella vista, quasi potesse sentire dentro di sé il senso di sconfitta e la frustrazione profonda della pittrice.
Si sentì nuovamente stringere la mano e la stanza scura satura di trementina lasciò spazio al profumo della notte, con il suo odore di gelsomini e di mare. Giulia sedeva di nuovo sulla panca del proprio giardino, accanto alla Genovesi sul cui volto era comparso un triste sorriso.
«Come vedi Giulia, anche io ho dovuto combattere contro una società in cui esprimere la propria voce, specialmente quando si trattava di una donna, era davvero difficile. Ma questo non ha mai impedito, né a me né a tanti altri, di continuare a credere nell’importanza dell’arte, quella vera, quella non banale, quella che non si lascia lusingare dalla celebrità effimera o dal potere politico» osservò Elda.
«Quel che dici è vero. Ma a volte temo che la società stia sprofondando in un abisso senza fondo. Come posso comunicare qualcosa a qualcuno che non vuol vedere e sentire altro rispetto a ciò che vive e comprende? Come posso partecipare al processo di cambiamento di un mondo che in realtà non vuol cambiare?».
«Giulia, è proprio nei periodi come questo, in cui la società sembra perdere la propria identità e la propria direzione, che il lavoro di denuncia, ed allo stesso tempo di ricerca e di studio, dell’artista, uomo o donna che sia, diventa ancora più fondamentale. Adesso ti sembra di rimanere inascoltata, ma non è così. Tutto ciò di cui, attraverso la tua arte, dai ogni giorno testimonianza, contribuisce a ricostruire la coscienza sociale» rispose Elda. Ed aggiunse con maggior dolcezza: «E questo avviene anche se tu non te ne rendi conto. Giulia, cara, lo so che è difficoltoso farsi strada ed è altresì difficoltoso riuscire a sostenersi economicamente, ma se credi davvero nell’arte e nella sua funzione sociale, varrà la pena di sacrificare qualcosa della tua vita, giacché la ricchezza viene dalla consapevolezza che ciò che crei sarà eterno e che, con il tuo contributo, riuscirai a rendere forse migliore questo mondo. Ma questa è una scelta: nessuno esclude che tu possa voler scivolare nell’indifferenza, diventando cieca e sorda davanti alla realtà, o lasciando che le tue tele si impolverino rinchiuse tra le mura dello studio.»
Giulia si alzò dalla panchina e fece qualche passo verso la magnolia, i cui grandi fiori bianchi emanavano il loro caratteristico profumo dolce e penetrante. Non aveva sempre amato quel fiore per il suo significato? Non era la magnolia il simbolo della perseveranza? Quello che portava tatuato finanche sulla caviglia, come pro-memoria per i momenti in cui si sentiva sopraffatta dalle difficoltà. Accarezzò il tronco dell’albero.
«Sì Giulia, devi continuare a perseverare» disse Elda quasi le leggesse nel pensiero, «Tu come tutti gli scrittori, i musicisti e gli altri artisti - quelli, come dici tu, degni di questo nome - che vivono quest’epoca difficile. Rinunciare all’arte significherebbe rinunciare a se stessi ed al proprio ruolo nella società.»
La Genovesi si alzò a sua volta dalla panchina. «Servirà tanto coraggio Giulia e so che tu ne hai!» e rivolgendo alla giovane un ultimo sorriso, si voltò scivolando lentamente nella notte.
Le note della canzone d’improvviso cessarono.
Giulia si guardò attorno. Era sola.
Era stato solo un sogno ad occhi aperti?
Guardò il fiore di magnolia che aveva tra le mani.
Non aveva importanza.
Le sue tele l’aspettavano. I suoi oli e le sue tempere avrebbero colorato la notte.
Quella notte e tutte quelle che sarebbero venute.
Perché il mondo potesse, un giorno, essere irradiato di luce nuova.
Le note di una vecchia canzone napoletana riecheggiavano soffuse nella sala ormai vuota, una musica d’altri tempi che si mescolava al vento leggero che agitava le tende di seta portando con sé il profumo delicato della notte. Anche gli ultimi ospiti avevano lasciato l’elegante palazzo di Santa Lucia.
Giulia appoggiò le braccia nude sul marmo fresco della grande finestra che dava sul golfo addormentato, soltanto il chiarore delle stelle e delle lontane lampare dei pescatori ad illuminare la distesa d’acqua che si muoveva pigra. La giovane respirò a fondo l’aria densa di salsedine e, lasciandosi cullare dalle note di sottofondo, chiuse gli occhi.
Era stata una delle rare volte in cui Giulia, incoraggiata dal maestro, aveva esposto i propri dipinti e non si aspettava tanto successo tra gli invitati. Era riuscita a vendere anche alcune tele, anche se ad un prezzo molto inferiore al loro valore.
Per lei, così timida e schiva, era stata una battaglia prima di tutto interiore decidere di presentare al pubblico le proprie opere; e come se non bastasse aveva dovuto combattere a lungo con il padre che, pur avendo egli stesso promosso nella figlia l’amore per la cultura in ogni sua forma, non aveva mai accettato l’idea che la ragazza amasse la pittura al punto da voler rivolgere ad essa ogni sforzo. Il padre, nella vana speranza di disincentivare la tendenza artistica della giovane, era giunto persino a negarle i fondi per l’Accademia e per l’acquisto dei materiali necessari per la pittura.
Giulia, tuttavia, non si era mai data per vinta e, anche grazie all’aiuto della sorella maggiore, era riuscita ad avere sempre a disposizione grandi tele da far vivere con il tocco di tempere ed oli.
E così non era raro incontrarla sulle scale della Chiesa di Sant’Antonio intenta a tratteggiare sagome di alberi e nuvole, a tradurre in colore attraverso pennellate brevi e decise il profumo dei fiori o il moto armonioso delle onde del mare; così come non era raro riconoscere il suo cappotto verde tra i vicoli dei quartieri spagnoli, assorta nel trasporre sulla sua tela il dolore e, allo stesso tempo, la sorprendente vitalità di quel mondo a sé, stretto tra il lungomare e la collina del Vomero.
Il dipingere non era, per Giulia, un esercizio di sterile riproduzione del mondo né un disperato tentativo introspettivo. Per lei la pittura rappresentava uno strumento di ricerca e cattura di un segnale di ottimismo in un’epoca alla deriva. E questo era quel che si poteva cogliere negli accesi contrasti di colore che sapevano di vita e di morte, nelle pennellate incisive che sfumavano in tocchi di colore leggero racchiuso in forme quasi impalpabili.
Eppure, non era solo la sua timidezza e la ferma opposizione del padre ad ostacolare il percorso artistico della giovane. Giulia si trovava a combattere contro una società in caduta libera, in cui l’arte si svuotava di contenuto e diventava, nel migliore dei casi, eccesso di sperimentazione e, nel peggiore, sterile e volgare provocazione.
Allo stesso tempo Giulia si trovava a fare i conti, insieme alle compagne dell’Accademia, con un anacronistico ma resistentissimo scetticismo verso la pittura femminile, che chiudeva loro le porte delle manifestazioni più rilevanti. Condividendo un’esperienza comune a molte altre donne, la giovane si confrontava difatti con le difficoltà che nascevano da una netta prevalenza maschile nel mondo della pittura, un mondo dove soltanto gli uomini sembravano degni di reale credibilità, quasi che lo svolgimento professionale dell’arte pittorica potesse essere considerato quale loro esclusivo appannaggio.
Sulla scia di queste riflessioni, i suoi pensieri andarono ad una pittrice, nata a Venezia nella prima metà dell’Ottocento e napoletana d’adozione per i lunghi anni ivi trascorsi. Elda Genovesi era la donna e pittrice che, attraversando quasi un secolo di storia e di vita, aveva celebrato l’universo femminile nelle sue molte forme e che, con il suo approccio grintoso e vitale, aveva vinto la propria battaglia riuscendo a vivere d’arte in un ambiente ed in un’epoca per tanti aspetti ancora ostili. In un mondo dominato dal conservatorismo culturale dell’Accademia da un lato e dal vuoto perbenismo della nobiltà dall’altro, la Genovesi aveva rappresentato una rara quanto pregevole eccezione. E a lei si era sempre ispirata Giulia nei momenti di maggiore sconforto.
La giovane era assorta in questi pensieri quando, d’improvviso, avvertì la brezza trasformarsi in un brivido leggero sulle spalle nude, mentre lenta si levava una voce femminile ad accompagnare, quasi in un sussurro, le note che dall’impianto stereo si liberavano nell’aria.
Giulia si guardò attorno, ma non vi era nessuno accanto a lei nella stanza, né alcuno degli ospiti sembrava essersi trattenuto nel cortile. Sporse leggermente il busto fuori dalla finestra, spingendo lo sguardo nelle anse meno illuminate del giardino.
In un angolo, sulla panca sotto la grande magnolia, scorse una donna dai lineamenti non più giovani che, avvolta in un abito azzurro, le sorrideva. Giulia la guardò incuriosita, cogliendo in quel volto sembianze familiari.
La donna, con un cenno della mano, invitò la giovane a raggiungerla in giardino. Giulia non ebbe esitazione, scese veloce le scale e, quando si ritrovò dinanzi alla donna, non ebbe dubbi: si trattava proprio della Genovesi.
«Vieni, siedi accanto a me!» la esortò quest’ultima con voce allegra.
Giulia la guardò incredula, ma accolse l’invito e prese posto accanto a lei.
La Genovesi volse lo sguardo verso Giulia ed esclamò sorridendo: «I tuoi quadri sono piaciuti!»
Con una spontaneità che non le sarebbe appartenuta in altre circostanze e senza alcun timore, Giulia rispose: «E’ vero e questo mi rende felice».
«Ma c’è qualcosa che ti turba, vero?» chiese la donna.
«La pittura fa parte del mio modo di essere, contribuisce a definirmi e avrei difficoltà ad immaginare una vita senza tele e colori. Ma mi addolora la percezione che non ci sia davvero spazio per l’arte, almeno non secondo il mio modo di intenderla» rispose Giulia malinconica.
La giovane si fermò un istante come a raccogliere i pensieri, riprendendo poi con maggior vigore: «Viviamo nella celebrazione dell’inutile, in un mondo in cui chiunque reclama per sé il titolo di artista, circondato da una platea acerba o ignorante che avvalora la legittimità di questa pretesa! E forse ciò che mi addolora di più è la battaglia che ci ritroviamo a combattere quotidianamente contro una società che diventa sempre più meschina e violenta; una società che arriva a ripudiare e distruggere l’arte ogni volta in cui sia portatrice di valori non condivisi. Così come mi sembra pura follia che le donne, certo in Oriente più che qui, debbano ancora accontentarsi di un ruolo secondario in qualcosa che è l’espressione di sé e della propria visione del mondo, come qualsiasi altra arte!»
La Genovesi sospirò: «Giulia, quella grettezza che oggi ti scandalizza è sempre esistita: rivendicare come arte ciò che non lo è; distruggere ciò che non si capisce o condivide; disprezzare o ignorare ciò che non fa parte della propria tradizione e dei propri costumi sociali; o ancora, tentare di fermare il tempo ed il progresso culturale. Tutto questo fa parte dell’uomo e della sua chiusura mentale. Ed è questa chiusura, la difficoltà di aprirsi al nuovo e al diverso ad aver ostacolato anche la pittura femminile. Quel che oggi accade in Cina o in Afganistan è quello che, sia pure in forme diverse, hanno vissuto le pittrici in Europa nei secoli scorsi. Ti parlo di tempi in cui le Accademie erano precluse alle donne ed in cui la pittura femminile era considerata soltanto un aspetto dell’educazione o un semplice passatempo.»
«Certo, ma a che punto siamo davvero arrivati oggi? Anche se nei musei, nelle sovrintendenze e in genere nel mondo dell’arte, molte donne riescono a farsi strada con successo, ho la sensazione che una reale parità non esista ancora! D’altra parte, la necessità di parlare continuamente di parità non significa forse ammetterne l’inesistenza?»
«Lo so come ti senti mia cara e, credimi, la tua frustrazione è comune a tutti coloro che hanno il talento e la sensibilità di comprendere cosa sia l’arte. Prova a guardare indietro, Giulia. Pensi che la vita sia stata facile per me? Pensi che lo sia stata per la Gentileschi o la Frai o per Suzanne Valadon, giusto per fare qualche esempio? Per tutte noi portare avanti la nostra passione ha implicato sacrifici.
Ha significato fare i conti con una critica che ci ha sempre relegato nel dilettantismo, anche quando riteneva che i nostri quadri avessero spessore artistico. E pensa anche a tutte le pittrici che sono riuscite a guadagnare un piccolo spazio di fama soltanto vivendo della luce riflessa di mariti ben più noti.»
Giulia tacque per qualche istante, poi disse con tristezza: «Ho sempre cercato di non arrendermi e di andare avanti per la mia strada, ma a volte ho la sensazione che sia impossibile far sentire davvero la mia voce.»
«Dammi la mano» disse la Genovesi, alzandosi in piedi.
«Voglio mostrarti qualcosa.»
Giulia guardò la mano tesa verso di lei e, con un pizzico di esitazione, la strinse nella propria. D’improvviso il giardino, il palazzo e le lampare dei pescatori scomparvero lasciando spazio ad un tempo e ad un luogo diversi.
Giulia riconobbe l’ampia sala del Gambrinus, con i suoi lampadari luccicanti, i tavoli tondi con le sedie rivestite di seta rossa, le statue e i dipinti ad arricchire le pareti. Poteva avvertire anche l’intenso aroma del caffè ed il profumo fragrante delle sfogliate alla crema.
In una sala scorse dei cavalletti su cui riconobbe alcuni tra i più celebri dipinti della Genovesi. Uomini e donne, elegantemente vestiti, si muovevano tra di essi, chiacchierando e sorridendo.
Una grande tela, addossata ad una delle pareti della sala, attirò la sua attenzione. Non l’aveva mai vista, né esposta nei musei né proposta nei libri d’arte. Ritraeva una scena di battaglia: in un villaggio di campagna, uomini armati si lanciavano l’uno contro l’altro in uno scontro acceso, mentre una nuvola di polvere si sollevava nell’aria, mescolandosi alle nuvole basse che oscuravano il sole che tentava di far capolino dietro alle colline. In primo piano, due bambini stretti accucciati al suolo, stretti in un abbraccio terrorizzato, gli occhi serrati e le mani a proteggere le orecchie dalle grida e dagli spari.
Giulia rimase colpita da quel paesaggio e da quei volti dall’espressione cosi intensa da sembrare reali. La giovane si sentì rapita, le sembrava di poter sentire l’odore intenso di polvere penetrare nelle narici, di udire le urla soffocate dei soldati che cadevano al suolo insanguinati. Poteva percepire il terrore impresso sul volto dei bambini; avrebbe quasi voluto allungare una mano e strapparli via da quella scena, portandoli al sicuro.
Una voce la riportò alla realtà. Accanto al quadro, una Genovesi ancora giovane descriveva ad un piccolo gruppo di persone le ragioni che l’avevano portata a dipingere quella scena. La pittrice, ragazzina, si era ritrovata ad assistere impotente ad una cruenta battaglia durante le guerre d’indipendenza, che l’aveva segnata in profondità.
Il pubblico esprimeva compiaciuto il proprio apprezzamento per la tensione emotiva del quadro, per l’espressività dei volti e per l’eccellente uso dei colori, quando un uomo, con monocolo e fazzoletto rosso nel taschino, si avvicinò alla grande tela, esclamando con aria sprezzante: «Quanti commenti lusinghieri! E’ facile credersi grandi artisti quando a giudicare le proprie opere è un pubblico compiacente o che ignora la vera arte!»
Nella sala calò un silenzio carico di imbarazzo. L’uomo era un celebre critico d’arte, noto per i commenti sfrontati, ruvidi e per l’acceso maschilismo. Elda non reagì e l’uomo ne approfittò per proseguire nel proprio attacco: «Cosa crede signorina? Che sia sufficiente l’uso di colori scuri per riflettere la tragedia della guerra? E le sembra forse che in questo quadro ci sia armonia nelle proporzioni e nelle forme? E’ evidente mia cara, che lei non ha alcuna attitudine nel dipingere grandi tele. D’altronde è noto che soltanto i grandi possano cimentarsi in simili imprese. In fin dei conti, quante donne hanno osato approcciarsi a lavori di questo tipo? Ascolti il mio consiglio, faccia come tutte le altre signore: si dedichi alle miniature, alle nature morte e lasci la pittura storica a chi è in grado di confrontarsi con questi temi e con tele di simili dimensioni. Il rischio, diversamente, è quello di scadere nella mediocrità. E la pittura non ha bisogno di mediocrità» disse sottolineando le ultime parole con un sorriso tagliente.
Elda abbassò lo sguardo, il viso arrossato dalla vergogna e dalla rabbia. Avrebbe voluto gridargli di andarsene, di lasciare quella sala dove non aveva alcun diritto di entrare vomitando insulti e cattiverie. Un uomo che non era in grado di guardare oltre la punta del proprio naso e che doveva la propria posizione alla protezione della famiglia reale e al conservatorismo che ancora resisteva nella società di quegli anni. Una società in cui la donna era relegata all’ambiente domestico dove le era concesso dipingere scene ritenute ad essa consone, la maternità, i giochi tra bambini, momenti della vita quotidiana.
Ma serrò stretti i pugni e tacque, consapevole che se avesse tentato di difendere i propri quadri e la propria dignità contro gli insulti di quell’uomo, avrebbe sortito l’effetto opposto, vanificando del tutto la possibilità di accedere ai più rinomati salotti del regno.
La piccola folla che la circondava si disperse nella sala in un silenzio imbarazzato, lasciando la giovane Elda sola e con il cuore in pezzi.
In quel momento Giulia si ritrovò catapultata in un nuovo luogo. Si trovava in una stanza scura, con il tipico odore pungente della trementina. Da una porta giungeva una luce soffusa; la giovane vi si avvicinò e vide Elda singhiozzare. Appoggiata alla parete c’era la grande tela che aveva visto al Gambrinus.
Vide Elda afferrare un punteruolo e distruggere ciò che con quelle stesse mani aveva creato, accasciandosi poi al suolo in un pianto disperato. Giulia provò un intenso dolore a quella vista, quasi potesse sentire dentro di sé il senso di sconfitta e la frustrazione profonda della pittrice.
Si sentì nuovamente stringere la mano e la stanza scura satura di trementina lasciò spazio al profumo della notte, con il suo odore di gelsomini e di mare. Giulia sedeva di nuovo sulla panca del proprio giardino, accanto alla Genovesi sul cui volto era comparso un triste sorriso.
«Come vedi Giulia, anche io ho dovuto combattere contro una società in cui esprimere la propria voce, specialmente quando si trattava di una donna, era davvero difficile. Ma questo non ha mai impedito, né a me né a tanti altri, di continuare a credere nell’importanza dell’arte, quella vera, quella non banale, quella che non si lascia lusingare dalla celebrità effimera o dal potere politico» osservò Elda.
«Quel che dici è vero. Ma a volte temo che la società stia sprofondando in un abisso senza fondo. Come posso comunicare qualcosa a qualcuno che non vuol vedere e sentire altro rispetto a ciò che vive e comprende? Come posso partecipare al processo di cambiamento di un mondo che in realtà non vuol cambiare?».
«Giulia, è proprio nei periodi come questo, in cui la società sembra perdere la propria identità e la propria direzione, che il lavoro di denuncia, ed allo stesso tempo di ricerca e di studio, dell’artista, uomo o donna che sia, diventa ancora più fondamentale. Adesso ti sembra di rimanere inascoltata, ma non è così. Tutto ciò di cui, attraverso la tua arte, dai ogni giorno testimonianza, contribuisce a ricostruire la coscienza sociale» rispose Elda. Ed aggiunse con maggior dolcezza: «E questo avviene anche se tu non te ne rendi conto. Giulia, cara, lo so che è difficoltoso farsi strada ed è altresì difficoltoso riuscire a sostenersi economicamente, ma se credi davvero nell’arte e nella sua funzione sociale, varrà la pena di sacrificare qualcosa della tua vita, giacché la ricchezza viene dalla consapevolezza che ciò che crei sarà eterno e che, con il tuo contributo, riuscirai a rendere forse migliore questo mondo. Ma questa è una scelta: nessuno esclude che tu possa voler scivolare nell’indifferenza, diventando cieca e sorda davanti alla realtà, o lasciando che le tue tele si impolverino rinchiuse tra le mura dello studio.»
Giulia si alzò dalla panchina e fece qualche passo verso la magnolia, i cui grandi fiori bianchi emanavano il loro caratteristico profumo dolce e penetrante. Non aveva sempre amato quel fiore per il suo significato? Non era la magnolia il simbolo della perseveranza? Quello che portava tatuato finanche sulla caviglia, come pro-memoria per i momenti in cui si sentiva sopraffatta dalle difficoltà. Accarezzò il tronco dell’albero.
«Sì Giulia, devi continuare a perseverare» disse Elda quasi le leggesse nel pensiero, «Tu come tutti gli scrittori, i musicisti e gli altri artisti - quelli, come dici tu, degni di questo nome - che vivono quest’epoca difficile. Rinunciare all’arte significherebbe rinunciare a se stessi ed al proprio ruolo nella società.»
La Genovesi si alzò a sua volta dalla panchina. «Servirà tanto coraggio Giulia e so che tu ne hai!» e rivolgendo alla giovane un ultimo sorriso, si voltò scivolando lentamente nella notte.
Le note della canzone d’improvviso cessarono.
Giulia si guardò attorno. Era sola.
Era stato solo un sogno ad occhi aperti?
Guardò il fiore di magnolia che aveva tra le mani.
Non aveva importanza.
Le sue tele l’aspettavano. I suoi oli e le sue tempere avrebbero colorato la notte.
Quella notte e tutte quelle che sarebbero venute.
Perché il mondo potesse, un giorno, essere irradiato di luce nuova.
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